Recensione: The Dark Hereafter

Di Tiziano Marasco - 13 Ottobre 2016 - 0:00
The Dark Hereafter
Etichetta:
Genere: Black 
Anno: 2016
Nazione:
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70

Il sottoscritto: “Salta al minuto 32!”
Il saggio della montagna: “Servono delle palle quadrate per fare una cosa simile”

Questo rapido botta e risposta, verificatosi tra chi scrive e il saggio della montagna al momento di ascoltare per la prima volta “The Dark Herafter”, nuovo arrivato dei britannici Winterfylleth, è scaturito in seguito ad un semplice sguardo alla tracklist. Si potrebbero dire tante cose per introdurre quest’album. Ad esempio il fatto che i mancuniani sono precisi come orologi e sfornano una nuova uscita ogni due anni. Si potrebbe notare che i Winterfylleth, negli ultimi due anni hanno registrato l’ingresso di Dan Capp alla chitarra e soprattutto di Mark Deeks alla tastiera (strumento fin qui assente nella formazione dei nostri).

Ma no, la tracklist presenta un elemento in grado di colpire anche occhi piuttosto distratti. Questa “Led Astray in the Forest Dark”, quinta e ultima traccia di “The Dark Hereafter” fa alzare troppe volte le sopracciglia. È un titolo che ricorda troppo un altro titolo, almeno a chi, bazzicando il black metal, si è fatto una discreta conoscenza di lingue scandinave. Alla prova del play, i sospetti si rivelano fondati e “Led Astray in the Forest Dark” si rivela essere la reinterpretazione, nella lingua di Shakespeare, di “I Troldskog faren vild”, brano che non necessita presentazioni.

Come notato dal saggio, ci vuole un bel coraggio a presentare come cover uno dei cavalli di battaglia degli Ulver, anche perché i Winterfylleth, nelle ultime release, avevano snobbato bellamente il clean. Ciò nonostante, e forse l’entrata di Deeks ai cori è stata determinante in questo senso, l’esperimento non si risolve in un fiasco totale e i Winterfylleth non escono distrutti da una sconsiderata sfida alla storia del metal estremo. Anzi, se la parte strumentale risulta identica, solo un po’ più leccata a livello di produzione, il cambio di lingua produce anche un leggero cambio d’atmosfera, e il tramonto del Telemark in cui aveva inizio Bergtatt viene traslato con relativa naturalezza nel Lankashire. E a ben guardare, anche la cover del platter in esame si rifà abbastanza chiaramente a quello dell’opera prima dei lupi norvegesi. Detto questo, la valutazione di questo strano esperimento risulta faticosa (“non ce la faccio, troppi ricordi”) e un giudizio definitivo potrà essere lasciato a un tour europeo degli inglesi, che, va detto, dal vivo spaccano in modo inverecondo. Per ora ci limitiamo a notare che la riproposizione risulta essere stilisticamente ineccepibile.

Superando l’empasse iniziale (o finale), il resto dell’album – senza la cover risulterebbe più vicino all’Ep, invero, constando di 4 tracce per 32 minuti – non si risolve in un tributo agli Ulver come si potrebbe immaginare. Rappresenta, al contrario, un’altra evoluzione nel sound dei Winterfylleth. Troviamo due tracce brevi, cariche, elettriche e furiose come quelle dell’ultimo “The Divination of Antiquity”, due brani validi ma tutto sommato d’ordinaria amministrazione per i nostri. A questi si aggiungono altre due composizioni la cui durata si attesta attorno ai 10 minuti. Su questi due pezzi, a parer nostro, dovrebbe concentrarsi il lavoro futuro della band di Manchester. Si tratta di “Pariah’s Path” e ” Green Cathedral”, due pezzi lunghi, ritmati, ripetitivi. La violenza tipica dei nostri entra così in una dimensione malinconica e, soprattutto in “Green Cathedral”, davvero emozionante, una lenta marcia tra piane desolate e tracce stilistiche un po’ Agalloch e un po’ Novembre, quelli di classica. In tal senso, l’interminabile fade-out della composizione, risulta davvero convincente grazie all’innesto di un coro (non parlato) in clean, malinconico e grandioso che da una dimensione in più al black massiccio eppure piuttosto canonico a cui la band ci ha abituato nei due lavori.

Tenendo conto di questo elemento, se i Winterfylleth si concentreranno su questo aspetto – e l’innesto di un tastierista-corista lascia ben sperare – hanno buone possibilità di tornare a regalarci album di livelli superiori come era “The Mercian Sphere”. Anche alla luce di questo, e della brevità, “The Dark Hereafter” può essere catalogao come un disco di transizione, un disco buono e stilisticamente impeccabile, con degli ottimi spunti. In attesa di tempi migliori.

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