Recensione: The Enslavement Conquest

Di Daniele D'Adamo - 7 Marzo 2016 - 0:00
The Enslavement Conquest
Etichetta:
Genere: Death 
Anno: 2016
Nazione:
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72

La ramificazione del death sul globo terracqueo non conosce confini. Anche nella sperduta Edmonton, in Canada, esistono cellule della materia primigenia. Si chiamano Begrime Exemious, sono state generate nel 2005 e hanno all’attivo tre album, di cui l’ultimo, “The Enslavement Conquest”, è appena uscito per la Dark Descent Records.

Begrime Exemious che non vanno tanto per il sottile. Anzi, lasciando fuori dalla sala di registrazione evoluzionismi vari, il quartetto nordamericano propone un death metal volutamente primordiale, feroce, dannato. Fondato sull’esagerazione sonora nonché testuale, scevro da abbellimenti di qualunque tipo, frutto di uno scellerato incrocio con il thrash più aggressivo.

Un’impostazione stilistica che rimanda chiaramente all’old school, ma che al contempo se ne discosta, poiché alcune caratteristiche del sound di “The Enslavement Conquest” sono molto particolari, diverse da una comoda catalogazione. Segno di personalità, e di profusione di molta farina del proprio sacco, utilizzata per… cucinare a dovere le song.

Impossibile, difatti, non restare colpiti dalle linee vocali D. Orthner. Teoricamente si tratterebbe di una sorta di bestiale commistione fra growling e screaming, ma in realtà si tratta di un vero e proprio vomito, riversato sul microfono con spaventosa regolarità. Un modus operandi che ricorda vagamente quello del folle V.I.T.R.I.O.L. degli Anaal Nathrakh, il che la dice lunga sul grado di empietà dell’estremismo musicale dei Nostri. Sostenuto, anche, da una sezione ritmica dall’impatto devastante, soprattutto nel disarticolato drumming di L. Norland, esploratore dei territori ove regnano i blast-beats. Impressionante, pure, il muro di suono costruito dalle chitarre dello stesso Orthner e di F. Thibaudeau. Le quali, tornando al discorso sulla vecchia scuola, tendono a un approccio piuttosto classico alla questione, fra riff stile primi anni ’90 e soli tipicamente heavy.

Il bombardamento che “The Enslavement Conquest” richiama anche nel cupo disegno di copertina non subisce rallentamenti di sorta, nella campagna di guerra che si svolge fra “Cradled In Our Hands” e “When The Vultures Leave”. La consistenza del platter è tremenda, ed è davvero faticoso resistere indenni alla pressione sonora esercitata in quasi cinquanta minuti da allucinazione. Sì, perché i Begrime Exemious riescono a pennellare le varie canzoni con un mood tetro, a volte glaciale, rappresentativo – davvero – delle tragiche efferatezze proprie di un conflitto bellico.

La bontà a tutto tondo di “The Enslavement Conquest” si può percepire nondimeno nei momenti in cui la velocità rallenta, come per esempio in “Subconscious Nemesis”, sinuoso viaggio nei meandri inesplorati della mente umana, come peraltro suggerisce il titolo del brano stesso. È però quando la schizofrenia galoppa, che i Begrime Exemious danno il meglio di sé (“Noose For A Monarch”), lasciando intendere che nel loro retroterra culturale l’hardcore abbia una parte rilevante. 

Manca solo un po’ di quell’indefinibile, labile sensazione di avere a che fare con qualcosa di grande, a rendere memorabile “The Enslavement Conquest”. Forse una certa ripetitività negli schemi strutturali dei pezzi, forse una mancanza di coraggio nell’andare oltre i limiti di un’efferatezza musicale già importante. 

Ai Begrime Exemious, però, non si può negare una genuinità e una dedizione alla causa assolutamente encomiabili. Onore delle armi, quindi. 

Daniele D’Adamo

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