Recensione: The Final Frontier

Di Massimo Ecchili - 25 Agosto 2010 - 0:00
The Final Frontier
Band: Iron Maiden
Etichetta:
Genere:
Anno: 2010
Nazione:
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74

Anno Domini 2010, quindicesimo studio album per la leggenda Iron Maiden, il quarto dal rientro alla base dei figlioli prodighi Bruce “Air Raid Siren” Dickinson e Adrian Smith; nuovo corso per una band che è leggenda con o senza The Final Frontier. Il punto è proprio questo: con tutto quello che di meraviglioso gli inglesi hanno composto un nuovo studio album è solo qualcosa di guadagnato, il cosiddetto “grasso che cola”. Piace? Tanto meglio. Non piace? Pazienza, basta andarsi a ripescare dalla propria collezione uno dei tanti capolavori del passato.
The Final Frontier è il quindicesimo sigillo, di livello o meno poco importa, di una band che ha insegnato a tutti cosa sia l’heavy metal e come vada suonato, tanto in studio quanto, se non maggiormente, sulle assi che pavimentano un palco. Vengono i lucciconi solo a recitare, anche senza espressione, come la poesia imparata a memoria alle elementari, “Dickinson-Harris-Smith-Murray-McBrain” (Gers è un caso a parte); vengono i lucciconi perchè, piaccia o meno, questi nomi sono l’heavy metal.
Ma bando ai sentimentalismi, c’è il seguito del controverso A Matter Of Life And Death da ascoltare! Controverso, già, capace come nessun album da 7th Son of a 7th Son in poi di dividere pubblico e critica, o, addirttura, di mettere in crisi anche il singolo ascoltatore. Odi et amo, recitava Catullo; odi et amo recitano tante metal-heads oggi. Il perchè si spiega da solo sin dai primi giri del platter nel lettore.

L’attacco è affidato a Satellite 15, un intro prolisso oltre l’umana comprensione fatto di percussioni ossessive e chitarre in salsa pseudo-psichedelica. A metà arriva Dickinson a fare da narratore e il tutto lascia più d’un interrogativo, ovviamente irrisolto, sull’effettiva utilità di tale incipit; soprattutto considerando il fatto che è legato (anti skip?) alla vera opener del disco: la title track, la quale si muove lungo riff hard rock (eh?) affatto male, nonostante un chorus scontato quanto la messa in onda del tg serale. El Dorado (soprav)vive di canonica cavalcata al basso di Harris e chitarre ancora una volta più hard rock che heavy; la mente viaggia a ripescare sensazioni simili, e si imbatte in No Prayer For The Dying (oh no!…). Ancora una volta il chorus sembra scritto col manuale del bravo metaller davanti, e qualche sbadiglio comincia ad affiancarsi alla perplessità. Possibile che nel 2010 gli Iron Maiden siano tutti qua? Fortunatamente Mother Of Mercy accende una (fioca) luce sulle speranze di ripresa: l’intro restituisce un Dickinson grande interprete, con un pre-chorus molto ben concepito e nonostante un refrain nel quale Bruce pensi più a sgolarasi che a cantare, difetto già riscontrabile nella precedente uscita della band. Quando comincia ad affiorare il timore che arrivare alla fine sarà dura irrompe Coming Home, mid-tempo dalle linee melodiche coinvolgenti e vincenti che, sia chiaro, sa di già sentito, ma fa piazza pulita di tutta la mediocrità precedente. Sin troppo semplice riconoscere le idee del Dickinson solista in questa traccia; sin troppo evidente che le carte giocate sono le stesse dei suoi brani più melodici quali Navigate The Seas of The Sun; qui in più c’è un bellissimo assolo che ancora una volta pesca più dalla tradizione del rock duro che dall’abc dell’heavy metal. Da qualsiasi parte lo si prenda Coming Home è comunque un brano splendido, capace inoltre di restare in testa dopo i primi ascolti.
The Alchemist è un pezzo tirato e diretto come se ne sentono pochi nella discografia recente della Vergine di Ferro (siamo dalle parti di Tailgunner, per intendersi, nonostante un chorus molto più melodico), ma poco toglie e meno ancora aggiunge al valore di The Final Frontier, sebbene, finalmente, il piedino inizi a fare quello che dovrebbe: battere il tempo. Sicuramente degna di nota la linea di basso che segue riff e soli, nonostante sia ancora poco per apprezzare il platter. Ma attenzione…a questo punto succede qualcosa di imprevisto: finisce la prima parte di The Final Frontier ed inizia un altro disco. E’ un po’ quello che accade in Full Metal Jacket di Stanley Kubrick: il secondo tempo sembra appartenere ad un altro film rispetto al primo.
Da qui in poi i brani cominciano ad avere un minutaggio decisamente più elevato, pescano meno dalla carriera solistica di Air Raid Siren, e si rifanno di più a quanto sentito in A Matter Of Life And Death, del quale questa seconda parte di The Final Frontier sembra essere in qualche modo il seguito naturale, o almeno il degno erede. Da Isle Of Avalon in avanti è possibile riconoscere gli Iron Maiden del nuovo millennio, capaci di proporre brani lunghi e dagli arrangiamenti ben studiati e messi a punto, con un Dickinson che finalmente può dar fondo alle sue enormi risorse espressivo-interpretative e le tre asce che, alla buon’ora, vengono sfruttate se non appieno almeno in maniera convincente. Harris aveva già imboccato una strada simile in fase compositiva, almeno in parte, a partire da The X Factor; percorso poi portato avanti anche nelle ultime uscite; svolta stilistica che sembra essere stata appoggiata da Adrian e Bruce dopo il loro rientro in formazione. La traccia in questione si snoda tra lunghe strofe nelle quali il vero spettacolo è dato, più che dall’atmosfera inquietante nella quale Dickinson si muove come un cobra pronto a scattare, da un drumming del buon Nicko che, finalmente, si merita il premio di “valore aggiunto” grazie al gran lavoro sul charleston. Air Raid spinge ancora una volta al massimo durante il refrain e qualche perplessità sulla scelta resta, ma tant’è. L’ampia sezione strumentale deve molto, ancora una volta, al rock d’un tempo, mentre un basso carico di groove contribuisce ad una combinazione non proprio ususale per il Maiden-style.
Starblind è tra le più riuscite dell’intero full length, un brano finalmente heavy condito da una enormità di idee e con degli arrangiamenti da lode. Di più: ha uno dei chorus più incisivi di tutta la discografia recente della band, e Bruce gioca bene le proprie carte nell’alternanza delle linee vocali tra l’alto ed il basso. Le chitarre si dividono bene i compiti e anche la tastiera svolge un egregio lavoro in appoggio durante il refrain. A metà brano, ad introdurre la parte solistica, irrompe un riffone rock seventies che fa sobbalzare sulla sedia. Sicuramente tra le migliori dell’intero lotto, Starblind da sola fa dimenticare tutto ciò che aveva destato perplessità in precedenza. Ma le sorprese sono lungi dall’essere terminate, e l’iniziale arpeggio folk-oriented di acustica, accompagnato dalla voce quasi sussurrata, è un buon indizio del fatto che anche The Talisman abbia molto da offrire. Quando fa irruzione il gallop di McBrain, naturalmente accompagnato dal buon vecchio Harris, arriva la prova che mancava a conferma del sospetto iniziale. Ciò che non convince è lo spingere al massimo di Dickinson, il quale sembra non ne voglia proprio sapere di risparmiarsi quando c’è da salire, anche se sarebbe auspicabile qualche linea vocale in meno sugli alti registri, pena la perdita d’espressività nella quale ha, ancora oggi, pochi rivali. Ad ogni modo altro grande pezzo, più diretto e meno vario rispetto ai precedenti (il che non sempre è da considerarsi un difetto). E’ con The Man Who Would Be King che prendono corpo le ormai note velleità progressive di Mr. Harris; la struttura è piuttosto complessa e la canzone dinamica grazie ai diversi cambi di tempo e ai diversi umori che la attraversano: dall’ormai immancabile intro arpeggiato alle strofe supportate da riffoni heavy, dal pre-chorus che fa la differenza (come vuole la miglior tradizione maideniana) ad un’ampia sezione strumentale che lascia da parte le scale veloci per dar più peso all’atmosfera, senza tralasciare il finale che sembra accompagnare per mano l’ascoltatore fuori dal brano. Una goduria per chi ha voglia di goderne.
Il finale riprende la tradizione dei grandi epiloghi presente in gran parte della discografia della Vergine; When The Wild Wind Blows è un altro pezzo da incorniciare, con l’espressività di Dickinson che raggiunge vette da mancanza d’ossigeno lungo linee melodiche che regalano le stesse emozioni provate da bambini sull’altalena. I soli di chitarra fondono benissimo sonorità e stile hard rock (grazie di esistere Adrian…) a melodia maideniana come più non si potrebbe desiderare, ma è quando riattacca il cantato che ci si smarrisce e si ricomincia a dondolare. Si può discutere su tutto ciò che riguarda il combo inglese, ma negare che sia sbalorditivo comporre un pezzo come questo dopo trent’anni di onorata carriera equivarrebbe a mentire sapendo di mentire: When The Wild Wind Blows è una chiusura egregia, ottima più di quanto sarebbe lecito chiedere e attendersi.

The Final Frontier galleggia su di un mare heavy metal tipicamente Iron Maiden (con le canoniche galoppate, gli acuti di Dickinson, i soli alternati tra le chitarre), sotto un cielo hard rock che ne sfuma i lineamenti e accarezzato da una legger(issim)a brezza progressiva che ne smussa gli angoli.
Sicuramente l’ampio contributo in fase compositiva di Adrian Smith, l’anima più rock tra i sei, ha contribuito a differenziare la nuova uscita dalle precedenti; inoltre c’è un lavoro certosino sugli arrangiamenti, soprattutto nelle seconda parte del disco, per mezzo del quale sembra che i nostri abbiano capito, qui più che in precedenza, come sfruttare al meglio il fatto di avere tre chitarre in formazione.
Tornando al punto cardine iniziale: sembra che oggi, A.D. 2010, scrivano e suonino ciò che vogliono, liberi da qualsiasi vincolo. The Final Frontier piace? Non piace? Ai Maiden (o Iron, come si era soliti chiamarli ai tempi d’oro) interessa ben poco; o almeno è fantastico pensare che sia così.

Massimo Ecchili

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Tracklist:

01. Satellite 15….The Final Frontier – 8:40 (Smith-Harris)
02. El Dorado – 6:49 (Dickinson-Smith-Harris)
03. Mother Of Mercy – 5:20 (Smith-Harris)
04. Coming Home – 5:52 (Dickinson-Smith-Harris)
05. The Alchemist – 4:29 (Dickinson-Gers-Harris)
06. Isle Of Avalon – 9:06 (Smith-Harris)
07. Starblind – 7:48 (Dickinson-Smith-Harris)
08. The Talisman – 9:03 (Gers-Harris)
09. The Man Who Would Be King – 8:28 (Murray-Harris)
10. When The Wild Wind Blows – 10:59 (Harris)

Line-up:

Bruce Dickinson: voce
Dave Murray: chitarra
Adrian Smith: chitarra
Janick Gers: chitarra
Steve Harris: basso, tastiere
Nicko McBrain: batteria, percussioni

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