Recensione: The Great Conjuration

Di Daniele D'Adamo - 21 Ottobre 2022 - 0:00

E così, la superband internazionale specialista nella riproposizione testuale (ma non solo) dei più grandi classici horror di tutti i tempi, cioè gli Heads For The Dead, è tornata in campo con il nuovo, terzo full-length, intitolato “The Great Conjuration”.

Per sostenere le cruente righe delle liriche non c’è altro genere che il death metal, ma questo si poteva anche intuire. Quella che di contro sorprende è la tenacia con la quale il mastermind Jonny Pettersson (chitarra, basso, testiere ed effetti speciali) non molla l’osso di un progetto che è ad alto rischio di ridondanza. Questo, ovviamente, poiché una volta che detto progetto viene messo a giorno (“Serpent’s Curse”, 2018), per la sua natura intrinseca si presta alla ripetizione di un leitmotiv che può divenire trito e ritrito.

Invece, esattamente come la cinematografia riesce sempre a tirare fuori dal cilindro qualche soggetto interessante e originale, i Nostri evitano di riproporre la solita minestra. E questo soprattutto grazie a un songwriting di buon livello, che consente di scrivere canzoni dai risvolti a volte inaspettati. Songwriting il quale fa sì che, nel complesso, il sound e lo stile risultino facilmente riconoscibili agli orecchi dei fan. Il che non è poco.

Stile che si può definire horror death metal, giacché la presenza di effetti speciali sparsi a piene mani lungo la durata del disco materializzano un’atmosfera palpabile, caratteristica nel suo essere come una nebbia (‘The Fog’) dal riflesso rosso sangue. Dalla quale spuntano improvvisamente numerosi pericoli mortali che, con una metafora nemmeno troppo elaborata, altro non sono che i brani del platter.

A parte ciò, non si può non evidenziare che il death di “The Great Conjuration” sia davvero… death metal. Il roco, acido growling di Ralf Hauber narra le cruente storie segnate da un sotterraneo sentimento di paura che attiva al massimo tutti e cinque i sensi per affrontare il pericolo incombente. Pettersson e Matt Moliti, dal canto loro, elaborano una ragnatela di riff estremamente variabile nel suo costrutto, dando luogo, anche, a tracce dalla pesantezza insostenibile, asfissiante (‘The Bloodline’).

Includendo, com’è ovvio che sia, fast-song (‘The Breaking Wheel’) in cui si scatena il drumming di Jon Rudin, assai vario ma che diventa micidiale, assassino in occasione delle fulminee accelerazioni dovute ai blast-beats. Questi sparati alla velocità del suono con il massimo vigore concesso a un essere umano (‘The Beast’). Ultimi ma non ultimi per importanza gli assoli, che segnano profondamente ciascun episodio, non mancando di svelare un componente melodica inaspettata, così come accade in ‘Rotten Bastard’.

Una band molto ben equilibrata nei suoi componenti, coesa, compatta, evidentemente indirizzata verso il comune obiettivo: essere meno ordinari possibili. Intento quasi riuscito nella sua interezza. Certo, i campionamenti che scorrono in sottofondo regalano alla musica uno spessore non comune, soprattutto per quanto riguarda l’estrinsecazione di un mood intenso nelle sue sfumature umorali. Tuttavia si tratta di un esperimento ormai consolidatosi, comune a molti act che praticano il metal estremo.

Ad ogni modo, nel suo complesso “The Great Conjuration” è un LP piacevole da ascoltare, ricco di particolari da scoprire a poco a poco, dotato di una ben definita personalità. Non un lavoro eseguito tanto per fare o per obbedire a clausole contrattuali, insomma, ma una verace voglia di esprimersi nel modo più congeniale alla propria natura artistica.

Liberamente, come dimostra l’anomala – se riferita al resto – composizione che risponde al nome di ‘Bloody Hammer’, inaspettata isola hard rock in mezzo all’oceano death metal.

Daniele “dani66” D’Adamo

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