Recensione: The Kiss Of Spirit And Flesh

Di Germano "Jerry" Verì - 11 Ottobre 2020 - 10:00
The Kiss Of Spirit And Flesh
Band: Leafblade
Etichetta: Kscope
Genere: Progressive 
Anno: 2013
Nazione:
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65

Secondo full-lenght per i Leafblade, band prog-folk nata dall’incontro del suo eclettico mastermind Sean Jude con il ben più noto Daniel Cavanagh (Anathema), non proprio l’ultimo dei comprimari. Cresciuti entrambi musicalmente nella scena di Liverpool, iniziarono a collaborare già nel 2006 e poi a loro si aggiunse solo in un secondo momento Kevin Murphy, bassista dei Moondoggies, con il quale Sean Jude aveva già ampiamente collaborato nei suoi esordi di carriera artistica.

The Kiss Of Spirit And Flesh fa seguito all’Ep To The Moonlight e all’album di debutto Beyond, Beyond del 2009 e propone in chiave incrementale il sound della band, ormai evoluto rispetto al passato.

Per l’occasione i Leafblade si accasano in Kscope, etichetta che in ambito prog non ha bisogno di presentazioni, affiancando nomi come gli stessi Anathema e Steven Wilson. A essere precisi, è lo stesso Cavanagh, pur avendo un ruolo marginale in chiave compositiva, a proporre il progetto alla nuova label, desideroso di dare ai Leafblade un respiro internazionale. Come suggerisce anche l’ascolto, infatti, è piuttosto chiara l’intenzione di far vivere il nuovo progetto all’ombra del suo titolato main project, per quanto lo stesso Jude rivendichi l’assoluta unicità e l’integrità del suo songwriting.

Rispetto al suo predecessore, The Kiss Of Spirit And Flesh conserva un’indole folk, atmosfere sognanti e un po’ eteree, un approccio compositivo intimo e a tratti spirituale. Se ne discosta invece amplificando l’espressione rock e prog della band, con un maggior uso della chitarra elettrica e della batteria, guadagnando colore ed enfasi. Elementi, questi, già presentati chiaramente nell’opener “Bethlehem”, forse uno dei brani più distanti da Beyond, Beyond ma anche uno dei più riusciti dell’intero album, in cui i richiami alle band del roaster Kscope sono maggiormente evidenti. La batteria di Daniel Cardoso (polistrumentista, manco a dirlo della famiglia Anathema) trova il posto per cambi di ritmo e fill in una misura impensabile rispetto al passato e la chitarra riesce a conquistare quei lampi di elettricità tanto cari ai progetti di Steven Wilson. Sugli stessi lidi compositivi si muove la successiva “The Hollow Hills (Starry Heart)”, con le due chitarre (elettrica e acustica) a fondersi e alternarsi, preservando la malinconia e l’emotività con cui si era iniziato.

In tutto l’album è palese, inoltre, la spiccata vena poetica nei testi di Sean Jude (lui stesso si definisce anche poeta e attore, oltre che musicista) espressa attraverso la loro dimensione meditativa e intima nel raccontare la realtà, la natura e l’esistenza dell’uomo. Più regolare e per certi versi banale nel suo sviluppo è “Sunset Hypnos”, brano che inevitabilmente fa scendere il coinvolgimento emozionale dell’ascoltatore. Prova a resettare il tutto per tentare poi un nuovo decollo l’accoppiata “Fuchsia” e “Oak Machine”. La prima è una breve strumentale acustica che sa di rugiada al sole, semplice, ma funziona; la seconda esprime un gradevole alternarsi di emozioni acustiche ed elettriche, pur lamentando una certa prolissità nei suoi arpeggi.

Segue “Thirteen”, probabilmente il pezzo più debole del platter, un brano che sa di già sentito, di equilibrio sonoro che può diventare noia. L’acustica “Beneath a Woodland Moon” restituisce quantomeno quella genuina introspezione verso cui le parole e le note di Jude vogliono condurre, in questo caso senza malinconia, bensì con una vena romantica e rasserenante. La chiusura dell’album è affidata a “Portrait”, il cui minutaggio (quasi 12 minuti) già suggerisce la volontà di congedarsi alla grande con un brano più ispirato e policromatico. Obiettivo sostanzialmente centrato, al netto di alcune lungaggini che ne appesantiscono l’ascolto.

 

In conclusione, quando parliamo di The Kiss Of Spirit And Flesh ci riferiamo a un buon disco, che mostra chiaramente quelle attitudini compositive di Sean Jude che tanto colpirono Cavanagh inducendolo alla loro collaborazione artistica. Se da una parte però è innegabile tale piglio creativo, stiamo parlando di un lavoro privo di quei picchi che fanno la differenza. Si tratta di un album con diverse buone idee, ma troppo spesso i brani non riescono ad avere una luce propria e il fatto che la conquistino quando si spostano su coordinate più caratteristiche di altre band, non è certo un buon segnale.

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