Recensione: The Land Of Thulê

Di Alessandro Rinaldi - 20 Maggio 2024 - 0:18
The Land Of Thulê
Band: Burzum
Genere: Black 
Anno: 2024
Nazione:
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85

“Quanto ti gioverà dicere “I fui””, disse Dante Alighieri.  Ed aveva ragione: ci sono band, come i Darkthrone, per le quali il passato è un pesante fardello e un lontano quanto mesto ricordo; altre, per cui è leggenda e non si fanno scudo dello stesso aggrappandosi ai propri sepolcri. È questo il caso di Burzum, al secolo Varg Vikernes, per il quale le gesta che furono sono diventate leggenda e il mito, a distanza di anni continua a vivere.

Ancora.

Perché parlare oggi di Varg nel 2024 vuol dire parlare di ciò che è stato fino ad oggi. È inevitabile.

Pazzo? Genio? Omicida? Talento mai totalmente espresso? Comprendere Varg e la sua musica vuol dire comprendere il caos che si porta dentro, perché una cosa è certa: è dannatamente true. Nel bene e (soprattutto) nel male, è un uomo dai mille eccessi, pronto a dire o fare tutto e il contrario di tutto perché così è, se vi va, altrimenti guardate altrove.

Che qualcosa stesse bollendo in pentola, era nell’aria: ultimamente è stato più attivo del solito aprendo un canale Tik Tok dove posta costantemente diversi contenuti e pubblicando ben quattro libri che fanno parte di un unico progetto, To hell and back again. La prima parte è dedicata ai fatti che si sono svolti tra il 1991 e il 1993, la seconda alla sua infanzia, la terza alla sua detenzione e infine la quarta, ovvero la storia di Burzum – interessante come ogni libro sia preceduto dall’aggettivo possessivo “my”, a voler sottolineare che è la sua versione dei fatti e non quella che gli altri hanno scelto per lui, quasi a voler fare chiarezza sulle tante versioni che girano intorno alla sua persona.

Dopo Thulêan Mysteries del 2020 ed un silenzio lungo quattro anni, Burzum torna con un nuovo disco che richiama nuovamente Thulê, ovvero l’antico nome che venne dato alla Norvegia da Pitea di Marsiglia e che era anche l’antico nome dato ai sacerdoti di Odino. Quindi, nonostante siano passati più di 30 anni, resta sempre più vivida l’intenzione di recuperare quelle tradizioni spazzate via dal processo di evangelizzazione della penisola scandinava, con la conseguente perdita di un inestimabile patrimonio culturale.

The Land Of Thulê è composto da cinque brani per un totale di quarantadue minuti di musica con un artwork semplice ed efficace, con una composizione cromatica che richiama un lontano passato: un tesoro, protetto, nella penombra, dallo scheletro di un drago. Rispetto agli ultimi lavori, rappresenta, dal punto di vista stilistico, un ritorno ad atmosfere più “strumentali”, molto più vicine a  Hvis lyset tar oss che a Thulêan Mysteries tanto per struttura che per atmosfere – quindi, i fan di vecchia data e quelli del “non è più come prima”, possono sorridere o comunque essere soddisfatti – con delle differenze. Prima fra tutte, l’uso massiccio delle spoken words, spesso in clean, che contribuiscono ad esaltare la dimensione più introspettiva del disco; dal punto di vista compositivo c’è un massiccio uso della chitarra che è grezza, ma non a livello della produzione anni ’90, in cui sostanzialmente si tende a privilegiare l’aspetto ambient rispetto a quello black. Il risultato, quindi, è una melodia che rispecchia l’attuale Burzum ma che suona old school.

The Magic of the Grave è il primo singolo, quello annunciato su Tik Tok e, probabilmente, il pezzo migliore di  The Land Of Thulê : l’intensità è quella dei tempi migliori, il riff che anima il pezzo, attraverso il quale si sviluppa ha un sapore ancestrale, malinconico, ma allo stesso tempo mistico grazie anche al parlato di Varg che dà un tono solenne al brano. Più veloce e primitiva The hidden name, che parte serrata con una batteria che sembra un possente picchio che batte sul tamburo: su questa base si sviluppa il tetro arabesco di Varg, la cui diabolica risata finale, è un ulteriore colpo di genio. The nature of the gods è il pezzo più breve del disco, una composizione di alto contenuto emotivo, con una traccia di piano trascendentemente mistica, che vuole portare l’ascoltatore alla dimensione degli Asi e dei Vani. The call of the Kraken è meno brillante rispetto alle altre composizioni ma pur sempre di livello, più ovattata e abissale, con un pregevole quanto semplice ed efficace arpeggio e la voce di Burzum che riecheggia dalle sue stesse profondità. Chiude Beyond the gate, distorta esaltazione della dimensione onirica, epica nel suo essere misteriosa: le sovraincisioni vocali, il riff di chitarra che si dirama per tutti e 12 minuti del brano, le atmosfere mesmerizzanti, le parole sussurrate, sono l’altare celebrativo di questa one-man band.

The Land Of Thulê sicuramente farà discutere. Più di uno dei suoi detrattori lo condanneranno come l’ennesimo capitolo di un musicista “normale” che deve la sua fama ai fatti di cronaca che l’hanno coinvolto: il black metal inner circle, l’incendio delle Stavkirke, l’assassinio di Euronymous. E in parte, ciò è vero, perché Varg è un personaggio molto estremo e discutibile, che paga le conseguenze di un mondo a volte troppo politicamente corretto al punto da diventare scorretto, che lo ha silenziato sui social e lo ha reso un martire; un fenomeno unico, in cui si fondono persona, personaggio e artista, in cui ogni elemento è parte dell’altro e non si potrebbe comprendere appieno questo musicista norvegese se si ignorasse una parte di tutto ciò. Anche l’arte ci ha regalato personaggi dalla vita privata discutibile, come ad esempio Caravaggio, che hanno avuto un trattamento mediatico totalmente differente perché la società ha bisogno di mostri per giustificare i suoi fallimenti, e troverà sempre qualcuno pronto a sostenere questa tesi, come ci dimostra la psicologia delle masse. Un personaggio con i suoi eccessi, ma comunque dannatamente vero, che può piacere o non piacere, ma in ogni caso non lascia mai indifferenti e questo, di per sé, è elemento degno di nota: quella lugubre, dannata risata sul finale di The hidden name, è ciò che ne sintetizza al meglio l’essere. Probabilmente il minimalismo compositivo, retaggio della tradizione black metal, è la chiave di lettura di tutto ciò: la composizione risulta davvero molto semplice, ma ciò che la rende meravigliosa è la capacità che Varg possiede di ipnotizzare l’ascoltatore e renderlo un tutt’uno con le sue cuffie, imprigionandolo nel suo mondo fatto di violente ed oscure visioni. Ed è proprio nel momento in cui il buio è più nero, che la luce diventa più accecante. Qui non siamo di fronte alle complicate strutture di Esoctrilihum o al blasfemo minimalismo primitivo dei Gorgoroth o al black metal ritmato e melodico dei Marduk, ma a qualcosa di semplice, diretto e immediato: uno dei pregi di Burzum è proprio quello di saper graffiare l’anima di chi ascolta la sua musica.

La musica è la ricerca del bello, e il bello non si ricerca attraverso una lista di caratteristiche che lo identificano, ma attraverso un concetto più complesso, che è quello dell’armonia: non è tanto quello che metti dentro quanto il risultato, che ne determina la qualità: il Conte Grishnackh stavolta ci è riuscito.

Vogliamo chiudere con una frase di Varg Vikernes che racchiude a pieno il significato di questo disco “Torna a una vita più semplice e vedrai che dietro le macchine costose, gli abiti alla moda, le celebrità vuote, le case stravaganti e gli spessi strati di trucco, la vita ha un vero significato. Dietro tutte le bugie c’è un profondo pozzo di saggezza da cui tutti possiamo bere e diventare più saggi, più sani e più felici”.

True.

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