Recensione: The Last Stand

Di Marco Giono - 22 Agosto 2016 - 11:00
The Last Stand
Band: Sabaton
Etichetta:
Genere: Power 
Anno: 2016
Nazione:
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65

(intro) il battaglione perduto.

“Il battaglione perduto” è il nome dato a nove compagnie degli Stati Uniti della Divisione 77° durante la battaglia delle Argonne nel 1918. Malgrado questi 550-575 uomini coraggiosi sono stati completamente circondati dall’esercito tedesco e sottoposti al fuoco di artiglieria, continuavano a lottare per una settimana fino a quando il fuoco è cessato. Dei 500 soldati e più che sono entrati nella Foresta delle Argonne, solo 194 ne sono usciti indenni. Il resto è stato ucciso, disperso, catturato o ferito.

In marcia

Impronte di anfibi disegnano un alone sulla radura lungo un sentiero affollato da un esercito disordinato. Magliette nere con mostri si mimetizzano tra loro. Teschi, ossa e locandine indicano che il bersaglio ormai è in vista. Un carro armato li minaccia immobile dall’alto. Quando le note di ‘Final Countdown’ decollano, inizia a scrosciare, ma la folla ormai assiepata sotto il palco salta urlando cori di guerra. Nulla può fermare i fan dei Sabaton dal loro destino. La pioggia è solo parte dello spettacolo.

Dentro quegli anfibi

Due anni sono trascorsi da “Heroes” e i Sabaton li hanno spesi in tour. Le date si susseguono vittoriose tra gag all’ultimo boccale di birra ed esibizioni alla nitroglicerina. Esplode tutto. Non c’è tempo di riposare, ma di accamparsi invece si, giusto fuori dagli studi di registrazioni svedesi con Peter Tägtgren. Lui produce “The Last Stand”, loro, i Sabaton lo creano nella stessa formazione di “Heroes”: Pär Sundström al basso, Joakim Brodén alla voce, Chris Rörland alla chitarre (presto lascerà il gruppo, i suoi bergen sono ormai davvero consunti) e Hannes Van Dahl    alla batteria. Il nuovo album ha lo scopo alto di musicare storie di guerre diverse nel tempo e per geografia. Forse una scelta che ha lo scopo di iniettare adrenalina nei Sabaton in modo da non adagiarsi su quanto fatto. E’ un attimo finire in naftalina.

Così l’avvio è spartano. Nulla di più epico e valoroso dei 300 alla termopili. Le tastiere tingono albe di sangue. I guerrieri si incitano con vocali. Tutto si muove lentamente come se in fondo la Grecia fosse roba da calpestare con estremo rispetto. Tuttavia il coro esplode in zampilli infuocati. ‘Sparta’, we never surrender! Notiamo nella musica dei Sabaton uno spostamento drastico verso la necessità di avere un coro accattivante e potente. Il resto è normale amministrazione con la batteria nei ritmi persino troppo standard.

Tutto si ripete senza particolari sussulti in ‘Last Dying Breath’ che funziona in quel suo correre hard rock su tastiere alla Europe. Più metalliche, ma le ricorda. Si fa piacere, tutto lì.

Quando sento odore di cornamuse i ricordi si infrangono in un capolavoro come “Tunes of War” dei Grave Digger. Così ‘Blood Of Bannockburn’ è il brano che devia dal consueto svedese per navigare fino a Stirling in Scozia. Il brano è una sorta di rock adrenalinico che rimanda ai Beatles e si eleva in un coro che sulle prima non convince del tutto, poi sa farsi piacere. Ha un che di personale e originale per gli standard dei Sabaton. Approvato.

La traccia quattro ‘Diary of an Unknown Soldier’ è intro al successivo brano ‘The Lost Battalion’ di cui potete trovare un sunto della storia nella mia intro. E’ un brano corale che ti trascina da subito in zone remote del tempo. Malgrado sia un buon brano, tende a ricordare troppo il tempo glorioso passato, senza trovare una propria via. Premio Ikea della critica.

Vanno di fretta in ‘Rorke’s Drift’ con un up-tempo a rime baciate che accatasta legna in cascina, ma poco altro. Passabile di nuovo, ma nulla più.

La title-track apre in tastiere quasi gioiose per poi incupirsi. Lo scenario è quello dell’Italia dove la difesa è quella sacra ancora prima che terrena. I cori hanno un che di etereo e gioioso. Sorridiamo, ma vi è un pò di amarezza come se qualcosa non tornasse di nuovo.

La sovietica ‘Hill 3234’ pur essendo costruita su riff di chitarra non riesce a convincere, i cori passano, ma non ti prendno del tutto, vuoti.

Scendiamo dalla collina. Percorriamo lo scontro antico tra samurai e le forze imperiali. E’ lotta cruenta con il tempo e con l’onore. Qualcosa deve cambiare. Pure nella musica dei Sabaton qualcosa si è spostato verso cori ammiccanti e seduttivi. Piacciono, ma per quanto? La domanda non ha risposta nemmeno con ‘Winged Hussars’ e i suoi cori alla vodka doppia. A presa rapida di certo, ma dopo che è passato il mal di testa… passi alla prossima e basta.

Così siamo giunti alla fine di “The Last Stand” con qualcosa di ricorsivo in ‘The Last Battle’, brano che ha un piglio AOR che non ti aspetti. Eppure i Sabaton si sforzano di correre furiosi, ma rincorrono gli Europe con il fiatone e forse anche sè stessi senza ritrovarsi.

 

Lattine per terra.

La pioggia non ha mai smesso di deteriorare il terreno. Il ritorno dei nostri è però esaltato da un euforia contagiosa. Si ricordano i brani. Qualcuno sobrio canticchia. Altri girano in torno a se stessi. Forse non torneranno. Altri in cerca di un angolo per liberarsi si sono già persi. Le impronte si diluiscono su un terreno ormai fangoso. Unica cosa certa è che il nostro battaglione, seppur con qualche defezione, presto tornerà a sventolare la bandiera svedese dei Sabaton.

 

Double Sabaton (conclusione)

Si può arrivare a ottenere verità opposte, giudizi anche diametralmente diseguali dall’ascolto di “The Last Stand” dei Sabaton, perchè in fondo è per certi diverso e profondamente uguale a quanto fatto dalla band svedese nella loro discografia. Ci sono sempre i tastieroni alla  Europe che imperversano nei brani, sostenuti da ritmi guerrafondai, ma meno veloci e martellanti del solito. Ancora i coroni, marchio del gruppo, sono ruffiani, forse troppo e non sempre potenti quanto dovrebbero. Alcune cose sono cambiate poi. I Sabaton salgono più lentamente inseguendo una melodia che non sempre deflagra come dovrebbe nel corone. Ci sono brani “come ai vecchi tempi”: forse la settima traccia intitolata ‘Last Stand’, forse sono io stanco delle dinamiche alla Sabaton, per cui la struttura della canzone è un ibrido tra gli Europe e un cartone animato giapponese. Qui rischiano di diventare sempre più plasticosi se non alimentati dal carburante giusto, mancando così quell’ epicità che anima i loro precedenti lavori. Soprattutto quando tentano la carta esotica dei Samurai o antica degli Spartani. Qualcosa non va. A volte sono le parole che sono sbagliate, altre la melodia che non esplode. Eppure i Sabaton sono divertenti comunque. Lo sono, ma dovrebbero esserlo? Ad ascoltare la loro discografia ci trovi brani di un’energia pazzesca, evocativi tanto da volerli urlare sotto una pioggia scrosciante mentre i battaglioni nemici ti bombardano. Perchè questa è ‘The Art of WAAAAR!’. Appunto si sente la mancanza di tutta questa epicità, carburante alcolico per il panzer svedese, che viene parzialmente sopperita da una varietà di melodie abbastanza riuscite, a volte troppo persino troppo riuscite. Eppure qui è forte il disaccordo anche con me stesso perchè ‘Blood of Bannockburn’, ‘Sparta’ oppure ‘Shiroyama’ sono brani piacevoli e divertenti, forse troppo, ma non cestinabili di certo come ciofeche. Anzi.

I Sabaton, a mio modo di vedere, hanno visto tempi migliori, ma non è detto che sia un problema quando in fondo puoi fregiarti di albumoni quali “Carolus Rex”, “Art of War” oppure anche l’ultimo “Heroes” e come conseguenza dal vivo la tua armata invade un giorno si e uno no i palchi di mezzo mondo.

“The Last Stand” è un buon album, ma anche un bel pò di meno, a seconda della verità che vogliamo ascoltare. Varietà giocosa contro narrazione epica sanguinosa. Un dilemma insoluto, ma in fondo è anche bello così.

 

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