Recensione: The Legend Of The Holy Circle

Di Roberto Gelmi - 21 Maggio 2014 - 13:08
The Legend Of The Holy Circle
Band: Three Monks
Etichetta:
Genere:
Anno: 2013
Nazione:
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80

Da Arezzo una giovane RPI band che vuole lasciare il segno: i Three Monks nascono dal sodalizio tra l’organista e compositore Paolo Lazzeri con il bassista e ingegnere del suono Maurizio Bozzi (attivo già nei Seventies) e i due batteristi Roberto Bichi e Claudio Cuseri. Il tastierista prog. rock nei primi anni Settanta, dopo l’eclissi del progressive sceglie di dedicarsi alla musica dell’Ottocento, sinfonica e organistica. Tra i suoi maggiori ispiratori si annoverano, dunque, non solo King Crimson e Van der Graaf Generator ma anche, udite udite, Julius Reubke, organista romantico (e allievo prediletto di Franz Liszt) che morì a soli 24 anni, lasciando ai posteri la nota Sonata sul Salmo 94 in do minore.

Lazzeri, insieme a Maurizio Bozzi, recentemente riscopre le sue radici e decide di formare un rock trio che tributi uguale onore alla musica d’arte e al progressive. Nel 2010 i Three Monks, con l’aggiunta della già citata coppia Bichi-Cuseri, pubblicano il loro primo album Neogothic Progressive Toccatas per Drycastle Records (e con l’ottimo missaggio di Torben Lysholm, presso i danesi Tune Town Studios), che riecheggia già dal titolo il capolavoro del 1994, Gothic Impressions, dei Pär Lindh Project.

A distanza di tre anni è la volta di The Legend of the Holy Circle, disco più eclettico del suo predecessore e più prog.-oriented. L’artwork punta in questo caso meno sul lato mistico del moniker e più sulla tematica fantasy, con un globo d’energia al centro e i tre monaci (alter ego dei membri del trio) che lo contemplano intenti, due col volto nascosto da cappucci e uno con tanto di spada.
L’album si apre con The Holy Circle”, che inizia con un sintetizzatore gagliardo, accompagnato da un oscuro bordone d’organo. Un incipit che sembra preludere al viaggio onirico che attende l’ascoltatore lungo i cinquanta minuti del full-length. Al min 2:44 c’è uno stacco con cambio repentino di dinamiche e un basso pulsante. Claudio Cuseri regala qualche finezza, poi il brano riprende con il piglio iniziale, magnetico e sinuoso. L’ultimo minuto presenta qualche accelerazione in più e cambi di tempo “difficili”.
Dopo l’ottimo opener, “Into Mystery” ha un breve avvio a due (basso e batteria), pigro e tenebroso; subentrano tastiere dimesse e, infine, possente prevale l’organo, tutto in meno di un minuto! Nel prosieguo compaiono invitanti fill di hi-hat e un contrappunto micidiale. A metà del quarto minuto torna protagonista il basso continuo iniziale e le dinamiche si fanno soffuse. Finale movimentato con parti di batteria sferzanti.

Prima delle tre suite del disco, “The Battle of Marduk” (che dura quasi dieci minuti) attacca con accordi d’organo, timpani solenni e sapide parti di batteria. Il rullante al min. 2:00 spiega il senso del titolo, che allude alla celebre divinità antica, re degli dèi e protettore di Babilonia. Marduk è, altresì, il corrispettivo di Zeus nel pantheon mediorentale e prevarrà anch’egli in una battaglia mitica, sconfiggendo il resto delle divinità rivali. Al min. 3:33 trova spazio un break fatato con tanto di Glockenspiel e parti di basso tanto minimali quanto ispirate (i The Flower Kings non saprebbero fare di meglio). Non mancano poi cenni jazz e un crescendo da manuale (con anche terzine di grancassa) che sa di saggio festina lente.
Organo a far da padrone per la cullante “The Rest of the Sacred Swarm” (brano più corto del platter), quasi un pezzo sacro bachiano. A metà brano, il basso ripropone il main-theme, in un riuscito accostamento di classico e moderno. Siamo, in realtà, al di là dei generi musicali, dove conta solo il bello.
Breve fugato di basso per l’attacco di “Rieger”, composizione che non rifugge certi suoni à la Wakeman e un drumwork a tratti veramente crimsoniano. La forma-canzone presenta gli stessi snodi dei brani precedenti con la seconda parte rigorosamente in crescendo.

“The Strife of Souls” è la suite più lunga del full-length: per una strumentale toccare i dieci minuti non è cosa da poco, ma i Three Monks riescono a non stancare e, soprattutto, a non strafare. Il titolo allude di nuovo a un combattimento: stanno bene, dunque, le note di timpano e l’attitudine da “poliorcetica in musica”, anche se in questo caso non si tratta di città da espugnare, bensì di una lotta tra entità spirituali. All’inizio del quinto minuto i toni si placano e resta la poesia di un registro etereo d’organo, strumento metafisico per eccellenza. Al min. 5:27 la traccia risorge blandamente dalle proprie ceneri, come un risveglio da un sogno a occhi aperti. Brillanti gli ultimi minuti che omaggiano il genio di Pär Lindh e regalano anche qualche secondo di doppia cassa.
L’album si chiude con l’ultima epica suite, dal titolo “Toccata Neogotica n° 5 (Epilogue)” (nell’album di debutto figurano, invece, la n° 1 e la n° 7). Le parti di organo ricordano compositori come Johann Joseph Fux, Dietrich Buxtheude, J. S. Bach (imprescindibile), Felix Mendelssohn Bartholdy e Léon Boëllmann (autore dell’impervia Suite Gothique). Una composizione che chiude mirabilmente il platter e richiama il passato recente della band.

In conclusione, l’album conferma quanto di buono già mostrato dal trio italiano, che questa volta osa più sul lato progressive, sempre però all’interno di un rigoroso classicismo compositivo. Consigliato per chi ama la musica di Emerson, Lake & Palmer, la (g)ra(n)diosità degli Yes, la solennità dei Pär Lindh Project e, più in generale, l’orgastica natura sonora dell’organo, uno strumento che da secoli è parte integrante dell’identità europea.
 

Roberto Gelmi (sc. Rhadamanthys)

 

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