Recensione: The Malkuth Grimoire

Di Pasquale Ninni e Leonardo Ascatigno - 2 Novembre 2020 - 12:13
The Malkuth Grimoire
Band: Alkaloid
Etichetta: Autoprodotto
Genere: Death  Progressive 
Anno: 2015
Nazione:
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80

Filosoficamente The Malkuth Grimoire è un album anomalo, contraddittorio, dall’alto tasso di eccitazione ed emozione. Un debut album creato come un sarto d’eccellenza prepara un vestito per un sontuoso e atteso ballo delle debuttanti, ma che in realtà sarà indossato da una veterana della mondana manifestazione, da una donna, dal fascino mai sopito, ormai, e contraddittoriamente, esperta di questo evento dell’alta nobiltà. Gli Alkaloid si preparano al “ballo” da perfetti debuttati, ma tali, nella loro individualità, non lo sono, perché hanno alle spalle tanti anni di felici esperienze in altre formazioni come Obscura, Necrophagist, Triptykon, Aborted, Obsidious, Dark Fortress, Noneuclid e Blotted Science.

Il progetto nasce quindi tutto nuovo, pur essendo individualmente già annoso, con un nome che rispecchia la particolarità della band che si dimostrerà assolutamente in grado, con The Malkuth Grimoire, di comporre un disco cattivo, estremo, affascinante e suonato con gusto. Tutto questo, come nelle reazioni chimiche degli alcaloidi che si rispettino, mescolato a una grande dose di modernità, potenza e carica melodica. La genesi è curiosa e forse antesignana di quanto si diffonderà negli anni a seguire: il disco viene rilasciato autonomamente dalla band grazie a un generoso crowdfunding.

The Malkuth Grimoire si configura come un album moderno, edificato su fondamenta melodiche e potenti, suonato con originalità e attenzione per le più impercettibili sfumature e dà la sensazione di essere un lavoro “colto”, probabilmente in virtù della timbrica vocale e dalle parti narrate che trovano una perfetta intersezione con quelle cantate. Il disco è di altissimo livello, senza cali per tutta la sua durata, nonostante i 73 minuti di ascolto caratterizzati da un sound oscuro e tetro. La proposta musicale, quindi, è assolutamente autentica e si materializza davanti agli occhi l’incessante lavoro dei musicisti che hanno fatto della ricerca uno dei mantra di questo album.

Per avere un’idea della cultura presente in questo brano sarà sufficiente ascoltare i testi per trovarsi nelle orecchie delle perle bellissime, tipo “I can see where you are / Sense the fear in you / Taste the blood of a star / Feel me breathe in your soul / Like the poets of old / For they always knew” tratta da Cthulhu.

Non appena si inizia ad ascoltare l’album immediatamente l’ascoltatore percepisce che tutto il lavoro è caratterizzato da badilate di tecnica, ma si intende che questa non sarà fine a se stessa, ma al servizio dei brani, per pennellarli di bellezza e originalità. Le canzoni scorrono veloci per musicare un eccellente laboratorio di sensazioni nel quale i reagenti, per rimanere in tema, saranno lavorati dagli alchimisti Alkaloid affinché si inneschino reazioni chimico-passionali che creano, da subito, una forte dipendenza dalla quale liberarsi diventa molto difficile. Un’alchimia che viene espressa anche nei testi, quando viene cantato: “All ingredients are here / Nothing needs to be added / Let alchemy suffice / Spirit – into form distilled / Nothing else required to build – a world / Architects of evolution / In Malkuth we reside / In Malkuth we belong”.

La dipendenza di cui si è scritto da subito è provocata dall’apertura titanica del disco, un’apertura che per bellezza e melodia move il sole e l’altre stelle

Infatti sin dal primo brano, Carbon Phrases, l’insolita strada intrapresa dalla band tedesca si identifica chiaramente ed escludente: infatti si intuisce subito che il Prog è un combustile ampiamente utilizzato per far girare tutto il motore musicale e che porterà ad apprezzare una melodia interessante e molto bella che ben si integra con le parti più estreme. In questo stesso brano si avrà la sensazione di sprofondare in meandri indicibili, alla stregua di Axel e del Professor Lidenbrock impegnati ne Il viaggio al centro della Terra di Jules Verne, per merito della profondissima, nonché bellissima, voce di Morean, che ricorderà quella di Michael Robert Rhein degli In Extremo.

In questo Grimorio in chiave moderna sembra di assistere, come accadeva in epoca medievale con il libro che portava lo stesso nome, a un incantesimo, a un intervento divino, che fa materializzare magicamente un album che sembra essere ispirato da entità soprannaturali che rispondono al nome di Morean, Hannes Grossman, Christian Münzner, Linus Klausenitzer e Danny Tunker. Una delle magie del combo tedesco è la composizione di brani non propriamente brevi, ma comunque sempre piacevoli e forieri di sorprese, quindi l’album da subito “morde”, ma poi, durante l’ascolto, tornerà a mordere, insaziabile, più volte.

Un ossimorico “morso” violentissimo, ma al tempo stesso piacevole, è rappresentato dal brano Cthulhu, un’autentica “macinapietre”, che sorprenderà con un’evoluzione inaspettata, ma sempre coerente e coesa con la restante parte del brano. Ecco un’altra grande qualità degli Alkaloid: eleggere a loro riserva di caccia privilegiata la capacità di far maturare i brani in maniera originale, ma pur sempre rimanendo perfettamente contestualizzati a quello che si sta suonando e questa caratteristica, talvolta avulsa nella musica, fa girare il disco al di sopra dei limiti della bellezza. Una cartina al tornasole di questo è la bellissima suite divisa in quattro parti intitolata Dyson Spere; le variazioni presenti nelle quattro sezioni evolvono e variano, percorrono strade tortuose e inconsuete per toccare sponde rintracciabili, per esempio, nei Tool, nel Black Metal più moderno ed evoluto o addirittura nella musica classica. Di quest’ultima contaminazione ne è una prova lampante la terza divisione della suite, Dyson Sphere III. Kardashev II. 1 – The God Oven, dove un crescendo rossiniano fa da giusta prosecuzione a un’apertura ostinata in cui sono apprezzabili echi ophetiani (da Orchid).

Quindi gli Alkaloid si divertono ad attraversare varie sonorità e timbriche lasciando un segno marcato, così come lo lascia, profondo e stordente, un proiettile che attraversa il gel balistico. L’ascolto di From A Hadron Mahinist ne è un esempio, qui troverà spazio qualche accenno Black Metal perfettamente incastonato, come una pietra preziosa, in intermezzi eleganti e di spessore; un brano cervellotico, a tratti schizoide, dove il tessuto che intrecciano chitarra e basso condurranno a un finale ricco di pathos, come la buona tradizione dei Blind Guardian, quella di Imaginations From The Other Side, insegna.

Il disco, come nota di curiosità, è stato registrato da Hannes Grossmann presso il Sound – Of – Mordor Studio di Norimberga, in Germania, mentre il missaggio è stato fatto al Woodshed Studio a Landshut, sempre in terra teutonica.

Per un album così apicale, considerata anche la genesi, è doveroso fare una piccola panoramica sulle singole tracce: Carbon Phrases ha il compito di fare da opener; è suggestivo e senza dubbio originale l’attacco con le clean guitar e il tom a scandire un groove mozzafiato che fa da sottofondo ai versi “Changing words takes precious time, Until great sense and suspense find in line, To be perfect, Be the architect, To protect your realm of dreams”. Poi il doom, con arpeggi distorti in Si bemolle ostinati, ma che rappresentano il piede perno per le poliritmie che si riveleranno marchio di fabbrica della band. La strofa lascia spazio alla violenza sonora, in primo piano si ascolta il complesso drumming e il pregevole uso del phaser sugli arpeggi. Il livello tecnico dei musicisti è alto e il solo di Carbon Phrases ne è la prova in quanto a fluidità e ricerca musicale.

Segue From A Hadron Machinist dall’intro etereo fatto di arpeggi sulle medio basse e prima chitarra che accenna il tema che si rivelerà in tutto il suo splendore in chiave distorta. Groove potentissimi prima della strofa e poi il tutto evolve in mid tempos, considerando che alla batteria c’è Hannes Grossmann (qui autore anche del testo). Emerge un disco non propriamente facile da assimilare se si volessero seguire le innumerevoli sfaccettature tecniche e compositive. Infatti i numerosissimi cambi di tempo e brani molto lunghi conferiranno inizialmente uno spiccato “effetto claustrofobia”.

Nel disco le chitarre sono acide, gonfie e saturate all’inverosimile. Si nota subito la presenza di tre menti operaie ai suddetti strumenti, sono infatti particolarissimi gli incastri e le stratificazioni tra loro. Si provi ad ascoltare con attenzione il riff di Cthulhu in pieno stile Morbid Angel. Mid tempo nella strofa per quello che è il singolo vero e proprio del disco, con drum e bass che accompagnano la voce narrante in “I remember Before the Watchers came Before Time became a lie, I remember When molten soil fed but flame When we brought water from the sky”, anche se, a onor del vero, non sono proprio riuscitissime le entrate chitarristiche stile “Atari” in questa song. Brano sicuramente meno d’effetto dei precedenti, ma che nell’economia del tutto riesce a emergere bene, considerando le acrobazie strumentali e il bel riff di cui sopra che torna di tanto in tanto diventando sempre più pesante man mano che si arriva alla fine.

In tema di riff è d’obbligo citare quello di Alter Magnitudes, in assoluto uno dei più belli degli ultimi tempi in campo Death Metal nonché punto più alto dell’intero disco. Frastagliato, ricucito eppure sempre di un effetto devastante: ricorda per impatto iniziale Bridge Of Destiny degli Arch Enemy (da Stigmata del 1998), ma molto più articolato nella sua evoluzione. Le chitarre qui sono bellissime, dagli arpeggi alle ritmiche; una cascata di idee, una più vincente dell’altra, e giusto parlando di idee geniali è doveroso ricordare l’apertura simil-dance sul solo di chitarra (da manuale per esecuzione e stile). Le musiche qui sono firmate da Christian Münzner, mentre nella seguente Orgonism dall’onnipresente Hannes Grossmann. Quest’ultima contiene un arpeggio iniziale con tema in maggiore e il basso di Linus Klausenitzer in primo piano. Il verse è un po’ riempitivo, ma riesce ad evolversi grazie ai numerosi change strumentali. Al minuto 4:00 un intermezzo di pianoforte anticipa il cambiamento verso lidi più Prog Metal con ritmiche pesantissime e sfuriate cromatiche nei soli.

Si giunge alla già citata Dyson Sphere, suite in 4 danze che contiene nell’ordine: I. Mining The Oort Cloud, II. Assembly, III. Kardashev II.I – The God Oven e IV. Sol Omega (rispettivamente traccia 6, 7, 8 e 9 del disco). Questa rappresenta forse l’episodio più sperimentale dell’intero platter. Si apre in maniera epica con un tema davvero riuscitissimo, ma che sfocia in alcune parti troppo ripetitive (non tra loro, ma calcolando quanto ascoltato fino ad ora). Il chorus è forse poco incisivo e un po’ tendente al pop, la violenza sonora è comunque sempre garantita e la tecnica di ogni componente è magistrale e fa davvero la differenza.

The Malkuth Grimoire, la title track, nell’attacco è mastodontica. Gli spunti in duo durante il verse sono la ciliegina sulla torta, la voce di Morean non è mai stata così corposa e incisiva e il brano si presta a infiniti headbanging spaccaossa. Qui si parla di un personaggio che la musica (quella con la M maiuscola) la conosce molto bene: a parte le innumerevoli collaborazioni in campo estremo è d’obbligo ricordare il suo progetto sinfonico Florian Magnus Maier dove risulta essere compositore (indubbia la sua conoscenza armonica e timbrica) di tutte le parti e interprete alla chitarra elettrica. In questa title track il testo è suo e le musiche di Christian Münzner e Hannes Grossmann.

C-Value Enigma è un l’unico esempio di quanto la tecnica a volte possa prevalere in maniera piuttosto sterile anche su un lavoro molto ricercato come questo The Malkuth Grimoire. Non a caso contenuto in Guitar Hero, è un brano strumentale composto e suonato interamente da Morean e i suoi 2:47 minuti scorrono via a fatica per i non addetti ai lavori: tapping ultra veloci e lungo tutta la tastiera si alternano a giochi in air – tap di armonici naturali con finale “effetto scordatura”. È notevole ovviamente il valore tecnico, ma il brano è completamente sconnesso con il resto del lavoro e di dubbio gusto anche per quanto riguarda i suoni scelti.

Questo episodio sarà subito dimenticato, perché subito dopo si potrà apprezzare in chiusura Funeral For A Continent. Questo è il brano più lungo in assoluto dell’intero disco. L’intro è sui tom, mentre per le chitarre in arpeggio è riservato un effetto Left & Right. Alcune soluzioni del combo in ambito strumentale mettono un po’ Morean dietro al microfono nelle condizioni di dover cambiare spesso registro, così da poter ottenere qualcosa di “orecchiabile” pur avendo in sottofondo parti molto complesse. Le parti soliste anche qui sono di elevata fattura, molto ispirate e per niente banali, al limite della fusion. Christian Muenzner e Danny Tunker nelle loro parti si sovrappongono e duettano come fossero Brett Garsed e TJ Helmerich (un po’ più indemoniati). Il riffing è maniacale, soprattutto al minuto 6:22 con un godurioso Black-Death da urlo. Linus Klausenitzer al basso si fa sentire prepotentemente, le evoluzioni in termini di dinamica sono all’ordine del giorno e stupendo è l’intermezzo al minuto 8:35, una sorta di reprise cadenzata commovente che ci prepara al finale con uno spettacolare solo “happy ending” da mozzare il fiato.

Gli Alkaloid hanno confezionato un primo disco assolutamente interessante, a partire dalla tetra e oscura copertina, che li colloca tra le realtà più interessanti e da seguire nel panorama del Metal più moderno.

 

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