Recensione: The Passion of Dionysus

Di Stefano Usardi - 29 Giugno 2023 - 10:00
The Passion of Dionysus
Etichetta: SPV / Steamhammer
Genere: Altro 
Anno: 2023
Nazione:
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50

Da grande fan del gruppo, devo ammettere di aver seguito l’evoluzione dei Virgin Steele con una sempre maggiore apprensione. “The Passion of Dionysus”, ultima fatica di DeFeis e… beh, di DeFeis e basta, arriva a cinque anni dal box “Seven Devils Moonshine” e funge da ideale prosecuzione di quel discorso iniziato anni fa con “Black Light Bacchanalia” e proseguito con “Nocturnes…” e lo stesso “Seven…”, caratterizzato da un’ostentazione sempre più accentratrice dell’ego del suo mastermind. Alla base di “The Passion of Dionysus” si trova ancora il dualismo uomo/dio, argomento spesso toccato da DeFeis e soci e sviluppato partendo dalla mitologia classica e dal collegamento tra la figura di Dioniso e quella di Cristo (come spiegato dallo stesso DeFeis nella sua intervista a Truemetal di qualche tempo fa), e sulla lotta tra le forze contrapposte di controllo e libertà all’interno di uno stesso schema sociale. Un tema di un certo spessore, che ben si presterebbe al Barbaric Romantic metal a cui i Virgin Steele ci hanno abituato in passato. Mi duole dire che, purtroppo, le mie speranze sono state disattese. Gli anni ruggenti sono passati da tempo, si sa, e il nuovo corso degli Steelers è da tempo improntato alla ricerca di un mood soffuso, intimista e malinconico. Una scelta sensata, sulla carta, che oltre a preservare le corde vocali di DeFeis avrebbe potuto aprire una nuova fase più introspettiva ed a mio avviso interessante nei Virgin Steele ma che, nella realtà dei fatti, ha portato solo ad un preoccupante impoverimento nella matrice sonora dei nostri, culminata con un lavoro che è lontano anni luce da ciò che di solito si associa ai Virgin Steele.

Procediamo con ordine: la prima cosa che salta all’occhio è la lunghezza delle canzoni, che spesso superano i sette minuti. Il problema è che sotto tutta questa opulenza cronometrica, fatta di passaggi che vorrebbero essere ruvidi e dinamici mescolati a melodie più dolci ed ammalianti, le composizioni di “The Passion of Dionysus” risultano mediamente piuttosto fiacche. Poche intuizioni veramente interessanti, soffocate da lungaggini disseminate qua e là e numerosi passaggi a vuoto (e di cui brani come la title track o “The Ritual of Descent” sono esempio lampante), che lasciano solo intravedere ciò che sarebbero potute essere se le condizioni fossero state diverse. Per condizioni intendo in primis la produzione, che relega la chitarra del sempre più bistrattato Pursino in cantina per concedere tutto lo spazio a voce e tastiere e, un gradino sotto, a una batteria fin troppo sintetica. Ciò, oltre a svuotare ogni episodio dell’album del minimo afflato eroico o dell’arroganza elegante e teatrale del passato (e che ci potrebbe anche stare, visto il nuovo corso del gruppo cui accennavo prima), dona al tutto un’idea di prodotto abbozzato, ancora in fase di sviluppo nonostante i numerosi livelli sonori che si affastellano durante la durata non proprio accessibile di “The Passion of Dionysus”. Grinta, eleganza e passione, che un tempo erano i tratti distintivi del gruppo, vengono smorzate da un bilanciamento che avvilisce ogni minuto dell’album per renderlo un mero sostegno alle continue intromissioni più o meno effettate di DeFeis, equamente suddivise nell’ormai consueto binomio ringhio/falsetto. Emblematica di questo abbattimento la prima traccia, “The Gethsemane Effect”, uno dei brani che a livello strutturale se la cava anche bene, volendo, mescolando in modo appropriato i vari aspetti della proposta dei nostri ma che al momento della prova del nove finisce prostrato da suoni che ne bloccano ogni spunto, impedendogli di spiccare il balzo di cui avrebbe un gran bisogno. Non va molto meglio con la traccia successiva, “You’ll Never See the Sun Again”, in cui il sentore di non finito si fa sempre più pressante. Purtroppo la situazione non cambia per tutta la durata dell’album, che arranca per un’ora e venti lasciandoci solo intravedere cosa sarebbe potuto succedere se il mastermind del gruppo avesse deciso di fare un passo indietro. Sì, perché proprio DeFeis rappresenta l’altro problema che affligge “The Passion of Dionysus”. La sua presenza si percepisce in modo sistematico ed incombente per tutto l’album, gravandone ampi tratti con vocalizzi raramente performanti. Sia ben chiaro: questa centralità nella produzione degli Steelers c’è sempre stata, ma se in passato fungeva da punto luce di un contesto strumentale più strutturato, ora diventa il principale difetto di un meccanismo che lascia ben poco spazio al resto del gruppo che si vede costretto, pertanto, a rassegnarsi al ruolo impostogli di mero piedistallo sonoro. La cosa fa ancora più arrabbiare perché le qualità compositive si sentono ancora, di tanto in tanto, e soprattutto perché quando De Feis si mette in testa di tirar fuori una melodia memorabile o un fraseggio dei suoi – e ce ne sono ancora alcuni sparsi per l’album, in “A Song of Possession”, “Black Earth – Blood” o in alcuni movimenti della conclusiva “I Will Fear no Man for I Am a God” – si vede che potrebbe ancora tirar fuori dal cilindro qualcosa di intrigante. Purtroppo così non accade, e quindi non posso che considerare “The Passion of Dionysus” un enorme passo falso – e purtroppo non il primo – di un gruppo che sembra essersi smarrito da qualche parte tra Scilla e Cariddi.

Peccato.

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