Recensione: The Powers That Be

Di Marco Catarzi - 28 Ottobre 2021 - 6:00
The Powers That Be
Band: Pharaoh
Etichetta: Cruz del Sur Music
Genere: Heavy  Power 
Anno: 2021
Nazione:
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80

La carriera dei Pharaoh ha sempre avuto un andamento sottotraccia, rimanendo confinata nel circuito degli appassionati di sonorità tradizionali, anche a causa del profilo appartato mantenuto negli anni e di un’attività live alquanto ridotta. Eppure la band è cresciuta progressivamente dal debut After the Fire (2003) al più recente Bury the Light (2012), arrivando con The Powers That Be al quinto album (più l’EP Ten Years), tutti per Cruz del Sur Music.

Se all’inizio le ascendenze maideniane erano dominanti, unite alla tradizione di scuola USA, col tempo il songwriting è diventato riconoscibile, pur rimanendo in ambito US power metal, e in quest’ultima release le composizioni si sono affrancate da schemi prestabiliti.

La sinergia è cresciuta disco dopo disco, grazie a una line-up rimasta stabile fin dall’esordio. Tim Aymar, cantante di livello altissimo, inspiegabilmente tornato in contesti “underground” dopo l’esperienza Control Denied, continua a garantire una qualità sopra la media, ma è la coesione di tutta la band il valore aggiunto di The Powers That Be. La prestazione di Matt Johnsen alla chitarra e della sezione ritmica composta da Chris Kerns (basso) e Chris Black (batteria, nonché mastermind degli High Spirits) ha infatti raggiunto una decisa maturità.

Ci troviamo di fronte a un sound che avvicina i Jag Panzer di The Fourth Judgement, ma che a tratti rievoca il Dickinson solista di Accident of Birth ed evolve verso trame complesse care a Steel Prophet e New Eden.

Nella title-track e in Will We Rise la chitarra di Johnsen crea armonie e assoli in costante evoluzione (nell’opener si segnala anche la presenza come ospite di Daniel Mongrain dei Voivod), ed entrambi i pezzi progrediscono verso territori in chiaroscuro, con scelte strumentali ricercate e introspettive, su cui Aymar alterna aggressività e sprazzi di classe, liberando tutte le sue capacità espressive.

Waiting to Drown, intensa ballad dai toni folk-blues, ne rimarca la profondità interpretativa e funge da interludio per le successive tracce, all’insegna di accelerazioni e rallentamenti, momenti sognanti, riff classici e melodie misteriose. I fraseggi si rinnovano continuamente, e la coppia KernsBlack modula pattern ritmici incalzanti.

Ride Us to Hell rievoca suggestioni maideniane ed è impreziosita da un assolo di Jim Dofka in veste di secondo guest. L’heavyspeed in stile Running Wild di Freedom presenta invece soluzioni prevedibili e, sebbene suonato con perizia, esula decisamente dal percorso intrapreso con gli altri brani.

Il disco trova il suo apice in Dying Sun, traccia di classe cristallina che mira a superare i maestri Jag Panzer attraverso arrangiamenti ispirati e un forte impatto emotivo. La solennità degli intermezzi e lo spessore delle scelte strumentali danno forma a una piccola perla di metal classico.

L’instancabile lavoro della sezione ritmica caratterizza I Can Hear Them e crea la base per aperture luminose crescenti, un personale “… E quindi uscimmo a riveder le stelle” con cui prendere congedo in maniera superba da questo album.

The Powers That Be è un platter di metal tradizionale dalle soluzioni suggestive. Senza la necessità di innovare, i Pharaoh hanno sondato nuovi livelli di profondità, grazie a canzoni che non si adagiano sulla stessa melodia. Probabilmente con questa nuova prova non accresceranno la loro fan-base, ma confermano il proprio status di band preziosa, che va custodita come un dono, anche se per pochi e fedeli ascoltatori.

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