Recensione: The Quest

Di Stefano Usardi - 3 Novembre 2018 - 16:25
The Quest
Band: Leah
Etichetta:
Genere: Power 
Anno: 2018
Nazione:
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80

Piacevolissima sorpresa questo “The Quest”, ultimo nato in casa Leah, cantante e business-woman canadese giunta col sunnominato a quota quattro full lenght e che, lo ammetto, fino a poco tempo fa non conoscevo affatto. Il genere proposto dalla nostra artista e (lei ci tiene molto a precisarlo, quindi ricordatevelo) promoter di sé stessa è riassumibile in sostanza come un mix di rock e partiture sinfoniche di grande impatto – mutuate dal power metal più delicato e romantico – spruzzato infine di folk celtico, capace di tessere atmosfere avvolgenti, eteree e maestose al tempo stesso, sapientemente impreziosite da melodie ariose, accattivanti e dal giusto profumo cinematografico. Il comparto metal, per la verità molto risicato, è comunque presente sullo sfondo (la nostra brava Leah si è circondata come al solito di ottimi collaboratori provenienti da realtà come Blind Guardian, Orphaned Land, Nightwish e Delain) e funge da base per supportare degnamente il resto del lavoro che, così, può permettersi di svolazzare indisturbato creando la sua magia. Naturalmente la parte del leone la fanno le notevoli corde vocali della frontwoman, che con le sue armonizzazioni e una certa predilezione per la semplice spontaneità della voce pulita guida l’ascoltatore in questo viaggio fantastico, tratteggiato perfettamente dalla canonicissima – ma comunque a mio avviso spettacolare – copertina. Giusto per delimitare per sommi capi il terreno su cui ci muoviamo, prendete i primi Within Temptation, aggiungete i Delain e i Nightwish dell’ultimo periodo con Tarja, un pizzico di Loreena McKennitt e della Enya di “A Day Without Rain” per le inflessioni celtiche e screziate il tutto con una certa fascinazione per le colonne sonore più pompose.

Il compito di aprire le danze spetta alla lunga title track, di undici minuti scarsi, introdotta da un cupo sussurro e dai primi vocalizzi della cantante, sorretti da melodie soffici e velatamente esotiche. Il brano prende corpo pian piano, senza fretta, stendendo uno strato dopo l’altro e senza il timore di tornare sui propri passi quando necessario per avvolgere meglio l’ascoltatore nel suo incantesimo. La voce cristallina ma carica di sentimento di Leah indirizza l’attenzione tra i vari profumi del brano, destreggiandosi tra passaggi solenni e maestosi ed altri più romantici, fluttuando tra dolcezza e pathos ma fermandosi sempre un passo prima di scadere nel melodrammatico, come dimostra l’ultimo quarto del brano e la sua epica maestosità che, di colpo, si stempera in un fraseggio più rilassato il quale, ricollegandosi al tema iniziale, riguadagna rapidamente pathos giusto in tempo per il finale. “Edge of Your Sword”, dopo un inizio che profuma di Enya da lontano un miglio per via del suo fare bucolico ma anche velatamente inquieto, si carica di colpo di un gusto da ballata rock, saltellando tra atmosfere dolci e sprazzi enfatici che esplodono definitivamente nel maestoso ritornello, guadagnando pathos col procedere dei minuti e sfumando anche stavolta nella melodia iniziale. Un’introduzione che richiama i Nightwish apre “Lion Arises”, traccia più classicamente power sorretta da possenti orchestrazioni che, però, di tanto in tanto si richiude in se stessa per svelare un lato più introspettivo e soffuso. Pur senza raggiungere il livello di fascino dell’accoppiata che l’ha preceduta, “Lion Arises” offre al pubblico un’altra faccia di “The Quest”, più diretta ma non meno romantica, che trova conferma nella successiva “Heir” e il suo andamento scandito ma sontuoso al tempo stesso, capace di ricordarmi i Within Temptation dello splendido “Mother Earth”. Chitarre dirette e tastiere di ampio respiro si intrecciano a squarci melodici meno immediati e cori suadenti, contribuendo a creare una canzone affascinante che, nonostante una certa ruffianeria di fondo piuttosto accentuata (che peraltro si riscontra in tutto l’album senza per questo inficiarne il valore), si lascia scivolare le potenziali critiche addosso grazie a un amalgama molto elegante.
Percussioni tribali e la voce dolce di Leah introducono “Ruins of Illusion”, traccia romantica ma dall’intenso profumo celtico che alterna passaggi più introspettivi, in cui la voce della cantante è quasi la sola presenza in scena, ad altri più corali e strutturati; molto bello l’intermezzo tipicamente folk che apre la seconda parte della traccia, in cui flauto e percussioni si fondono con le tastiere prima del climax finale. La successiva “Labyrinth” cambia passo, giocandosi la carta della classica ballatona da classifica, delicata e dal retrogusto sofferto, con alzata di tono progressiva e ottimo uso dei cori in cui di tanto in tanto tornano a farsi sentire, più o meno sullo sfondo, le atmosfere che resero celebre Enya negli anni novanta. Si arriva così a “Abyss”, che prosegue il discorso della traccia precedente mettendo, però, un po’ più di spinta nel comparto strumentale: ne risulta un’altra canzone delicata, romantica e sognante, screziata di tanto in tanto da fraseggi ai limiti del folk e qualche sporadica sferzatina. L’entrata in scena dei cori che tanto sanno di “Ghost Love Score” introduce il finale, inframmezzato da fraseggi di chitarra carichi di feeling.
Le morbide note di un piano si intrecciano a un flauto sfuggente per aprire “Oblivion (Between Two Worlds)”, canzone eterea e fluttuante dall’incedere delicato che, di colpo, si carica di enfasi in corrispondenza del ritornello, tessendo la sua magia con armonizzazioni vocali seducenti ed intrecci molto ben calibrati. “Ghost Upon a Throne”, invece, in un primo momento mi ha spiazzato per via del suo incedere quasi pop, di quello da classifica a cavallo tra gli anni ottanta e novanta, sicuro e diretto ma anche piuttosto leccato. Non mi vergogno a dire che ci ho sentito una nota dei Roxette del periodo d’oro, seppur filtrati dal gusto di Leah per le atmosfere maestose, e che tale nota mi è piaciuta molto. Chiude l’album “The Water is Wide”, canzone tradizionale scozzese (interpretata praticamente da chiunque) che, nonostante la sua indubbia carica emotiva, non mi ha entusiasmato, forse per una resa un po’ fuori contesto e troppo vicina a certi inni alla “Amazing Grace”. Ad ogni modo, questa mezza scivolata non abbassa minimamente il valore assoluto di “The Quest”, che anzi si mantiene decisamente alto grazie a una notevole fruibilità, un livello esecutivo eccellente e soprattutto una scrittura che, per quanto ampollosa, si rivela comunque accattivante e molto emozionale, capace di creare atmosfere di sicuro impatto. Proprio per questo mi sento di consigliarlo a qualsiasi tipo di utente, metallaro e non, che cerchi un album rilassante e maestoso per lasciar fluttuare la mente senza pensieri per un’oretta scarsa. Certo, se siete inveterati consumatori di metallo pesante e rifiutate per partito preso tutto ciò che non somiglia neanche vagamente a Judas Priest o Slayer statene alla larga, perché non troverete niente che faccia per voi: nonostante qualche timida schitarrata di tanto in tanto, di “vero metallo” qui non c’è praticamente nulla, ma quando un prodotto raggiunge i livelli di coinvolgimento di “The Quest” non vedo proprio che differenza faccia una chitarra in più o in meno.

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