Recensione: The Raven That Refused To Sing

Di Federico Reale - 1 Marzo 2013 - 0:00
The Raven That Refused To Sing
Etichetta:
Genere: Prog Rock 
Anno: 2013
Nazione:
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90

Steven Wilson è sicuramente una delle figure più eclettiche ed importanti nella storia recente della musica. Oltre ad aver contribuito in modo determinante alla riscoperta del Progressive Rock nelle ultime due decadi grazie ai Porcupine Tree, si è cimentato nel campo del Rock più leggero ed orecchiabile con i Blackfield, senza dimenticare i dischi registrati con gli stessi PT a cavallo tra gli anni ’90 ed il nuovo millennio, in quello del Folk con gli Storm Corrosion in collaborazione con Mikael Akerfeldt e in quello della psichedelia pura con i No-Man, giusto per citare i suoi lavori più famosi, e sempre (o quasi) con risultati assolutamente strepitosi.

A questa miriade di progetti, dal 2008 Wilson ha affiancato una soddisfacente carriera solista che, dopo aver visto la luce con l’ottimo “Insurgentes”, disco contaminato da influenze Ambient e Shoegaze, ed essere proseguita con il più “classico” “Grace for Drowning”, raggiunge il suo terzo capitolo nel 2013 con “The Raven that Refused to Sing”.

Assoldata una formazione di altissimo livello, composta da Marco Minnemann alla batteria, Guthrie Govan alla chitarra solista, Theo Travis ai fiati, Nick Beggs al basso e Adam Holzman alle tastiere, Wilson decide di omaggiare i giganti del Progressive Rock inglese degli anni ’70, King Crimson in primis.
Non si tratta naturalmente di un semplice copia-incolla: il tocco dell’inglese è come sempre riconoscibilissimo, nonostante manchino le innovazioni dei Porcupine Tree o dei Blackfield. Insomma a differenza delle mille band fotocopia che affollano la scena, Wilson fa in modo che le semplici influenze restino tali, senza abbandonarsi alle mere emulazioni.
Le danze sono aperte da “Luminol”, già nota da circa un anno per alcune riproposizioni dal vivo: un nervoso scambio di basso e batteria dà il via ad una cavalcata claustrofobica di oltre 12 minuti prevalentemente strumentale, ed ovviamente caratterizzata da un tasso tecnico elevatissimo; tra parti jazzate isteriche ed altri momenti di calma apparente, c’è spazio per uno strepitoso assolo di Govan, che in questo disco raggiunge vette di ispirazione sorprendenti, e per cori che richiamano i vecchi capolavori di Yes e Gentle Giant, senza dimenticare lo splendido lavoro al flauto di Theo Travis. “Drive Home” è invece l’esatto opposto del brano precedente: si tratta di una dolce ballata che nonostante la durata di quasi 8 minuti si basa su una melodia semplice; Govan ci regala nuovamente un assolo da brividi, mentre ancora una volta Wilson dimostra di essere capace come forse nessun altro al mondo di convertire emozioni in musica. Un altro cambio nettissimo di atmosfere è dettato da “The Holy Drinker”, che, inizialmente tetra e minacciosa, sembra rischiararsi quando la voce di Wilson subentra come un raggio di luce nell’oscurità, per poi ricominciare ad incupirsi sempre di più fino ad arrivare al terrificante finale, che sembra essere preso dalla colonna sonora di un angosciante film horror, con l’ascoltatore spinto sempre più in fondo ad un vortice di terrore che poi svanisce all’improvviso, come un tremendo incubo che si dissolve al risveglio.

La seconda metà dell’album è aperta dal pezzo più corto e semplice del lotto: “The Pin Drop” presenta un lavoro corale molto Beatlesiano; con le sue atmosfere spaziali e psichedeliche è uno dei pochi momenti che richiamano alla mente quanto fatto da Wilson con i Porcupine Tree. Ci avviciniamo alla fine dell’album e le dolci note della suite “The Watchmaker” cominciano a cullarci, trasmettendo un’appagante sensazione di pace e tranquillità: quando sembra che tutto stia per finire dopo una serie di splendide melodie incastonate perfettamente tra loro, senza che ci sia la possibilità di accorgersene si schiude un mondo di angoscia sempre più opprimente rappresentato da forti dissonanze jazzate, che terminano in un’improvvisa apocalisse sonora.

Ma forse la vera perla si trova alla fine. La title track è una delle composizioni più soavi che avrete mai possibilità di ascoltare, è una di quelle opere d’arte che toccano l’anima, e che lasciano una sensazione di vuoto interiore dopo l’ascolto. “The Raven that Refused to Sing” parte sul fondale di un oceano di malinconia inconsolabile, urlata dalla voce sofferente di Wilson, ma con il passare dei minuti si ha la sensazione che un barlume di speranza cominci a far luce, fino ad esplodere in un bagliore accecante alla fine.

“The Raven that Refused to Sing” è un capolavoro che riesce ad omaggiare i grandi del passato senza risultare freddo o costruito a tavolino per gli amanti del Progressive d’annata: Steven Wilson mette a segno un altro centro e dimostra di avere ancora molto da dire pur distaccandosi in maniera netta da quanto fatto in passato.

Probabilmente a fine anno sarà eletto da molti come miglior disco del 2013, e non solo per quanto riguarda il Progressive.

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Tracklist:

01. Luminol
02. Drive Home
03. The Holy Drinker
04. The Pin Drop
05. The Watchmaker
06. The Raven that Refused to Sing

Line-up:

Steven Wilson: vocals, guitars, bass keyboards
Guthrie Govan: guitars
Marco Minnemann: drums
Nick Beggs: bass
Adam Holzman: keyboards
Theo Travis: flute, saxophone

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