Recensione: Theater of Dimensions

Di Luca Montini - 20 Febbraio 2017 - 10:00
Theater of Dimensions
Band: Xandria
Etichetta:
Genere: Gothic 
Anno: 2017
Nazione:
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75

Il pubblico in abito di gala attende con una certa curiosità, dialogando animatamente nel lussuoso foyer del “Theater of Dimensions”, nei minuti che precedono il nuovo spettacolo degli Xandria. Tra i commenti della stampa extradimensionale e degli appassionati più intransigenti serpeggia un certo cinismo nei confronti della band tedesca: una tra le più note e longeve compagini nel panorama gothic metal, ma mai capace di andare oltre la mediocrità con le proprie produzioni. La compagnia ha sostituito già due volte la cantante senza ricercare un’identità artistica ben precisa, quasi più a voler imitare altri che a creare qualcosa di davvero proprio: da Lisa Middelhauve (1999-2008) a Manuela Kraller (2010-2013), siamo al secondo lavoro con Dianne van Giersbergen. Il fortunato (il singolo Nightfall” ha più di undici milioni di visualizzazioni su YoutubeSacrificium (2014) non brilla certo di luce propria: un disco appesantito da un’insostenibile sovrastruttura di cori ed orchestrazioni, algido con le sue chitarre neoclassiche senz’anima e con delle linee vocali talmente impersonali che avrebbe potuto cantare qualsiasi aspirante Tarja. Segue un EP uscito in sordina, Fire & Ashes (2015), un lavoro promettente che vede la nuova cantante protagonista di un’interpretazione magistrale, soprattutto, è giusto sottolinearlo, su brani non originali: da Meat Loaf ai Sonata Arctica, passando per alcuni classici degli Xandria, risultando invece un po’ anonima negli inediti a causa di un songwriting poco ispirato. Eppur si muove… le speranze di trovarmi di fronte ad un lavoro più maturo del precedente c’erano tutte, e dal mio modesto punto di vista, non verranno disattese.

Il pubblico ha preso posto dalla platea ai palchi fino al loggione del “Theater of Dimensions”, le luci si abbassano ed un climax orchestrale ci accompagna all’opener “Where the Heart is Home”. Siamo sulle stesse atmosfere del disco precedente, il riff è abbastanza telefonato ma c’è qualcosa in più. I sette minuti scarsi del brano volano infatti via con brillantezza, il cantato lirico della strofa lascia immediatamente il posto ad un ritornello dalla melodia catchy, confezionando un brano dalla struttura lineare, con un breve assolo a tre quarti e di nuovo il riff portante, al quale segue una parte orchestrale ben arrangiata prima dell’ultimo refrain. 
Quello che colpisce del lavoro è tuttavia la buona varietà e caratterizzazione dei brani proposti, con una band capace di fare un passo indietro negli aspetti più eccessivamente barocchi (dalle chitarre neoclassiche alle ingombranti incursioni orchestrali) per esaltare le doti vocali della Van Giersbergen e la poliedricità di immagini emozionali evocate, senza cadere nelle ingenuità dei classici della band, India (2005) incluso. La melodia portante la fa da padrona nella medievaleggiante “Death to the Holy”, nel singolo powerello “Call of Destiny” e nell’arrembante “Ship of Doom” (feat. Ross Thompson), brani che convincono e ti entrano subito in testa dal primo ascolto. L’aspetto più teatrale è relegato in chiusura, con la lunghissima titletrack, un brano stile Nightwish prima era come “Song for Sorrow and Woe” e con l’ammiccante “Queen of Hearts Reborn” con un interessante recitato che evidenzia la sicurezza e la maturità di Dianne al microfono. Ci sono anche due ballatone: il lento “Forsaken Love” e la sognante “Dark Night of the Soul”. Spazio anche per un brano strumentale: “Cèili”, un piacevole inserto folk che spezza dalla pesantezza di un genere per sua natura così ridondante e pomposo. Abbastanza anonimo il primo singolo “We Are Murderers (We All)” a causa di un songwriting troppo lineare, brano che si presenta come il più pesante del lotto, anche grazie al contributo del growl di Björn Strid (Soilwork). Resta da citare “When the Walls Came Down (Heartache Was Born)”, brano incentrato su una cavalcata costante di batteria, e l’orientaleggiante “Burn Me”, con la partecipazione di Ross Thompson (Van Canto), in un duetto tipicamente avantasiano.
Chiusura prevedibile con la già citata suite “Theater of Dimensions”, in cui tutta l’opulenza roboante della band deflagra nella skip-track per antonomasia, un folle gran finale tra incubi e deliri con uno straniante Henning Basse ed un ritornello che fa di nuovo molto Nightwish. Buona per un paio di ascolti cinematografici, poi anche basta. 

Niente da fare per i detrattori storici della band: li vedi uscire dal “Theater of Dimensions” col loro taccuino in mano mentre annotano qualche commento al vetriolo, certi di aver attraversato i soliti panorami musicali nei settantaquattro minuti di esibizione degli Xandria. Peggio per loro e per i loro paralogismi da pregiudizio della conferma. Per chi scrive ci troviamo invece dinanzi al miglior disco di sempre per i teutonici: finalmente usciti da un profondo tunnel di monotonia, capaci di valorizzare il talento di Dianne con delle linee vocali studiate con e sulla sua voce, promossa al ruolo di protagonista e non mera esecutrice sul palcoscenico. Un disco teatrale e barocco che non inventa nulla e non raggiunge le vette compositive di band come gli Epica, ma che ha dalla sua un songwriting ben strutturato e dalle numerose sfumature emotive, con una varietà inedita per la carriera ventennale Xandria, capace di lasciare il giusto spazio alle melodie senza soffocare nella propria complessità strutturale da un lato, e senza risultare banale e troppo stucchevole dall’altro: i due principali pericoli per un disco sinfonico. Non resta che chiedere un bis per pochi intimi, con i cinque brani acustici della deluxe edition, prima che cali definitivamente il sipario dimensionale al termine della lunga esibizione.

Luca “Montsteen” Montini
 

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