Recensione: Tomb of the Lunar Oracle

A due anni di distanza dal debut-album “Citadel of the Elder Star”, tornano i Lazer Throne con il neonato “Tomb of the Lunar Oracle“. Parlare al plurale, per il progetto statunitense, non è corretto giacché, come ormai consuetudine nel campo del black metal e specificamente in quello atmosferico, a sgobbare sono i polistrumentisti tuttofare. Come in questo caso, dove Lazer Throne, il musicista e non la band, si occupa infatti di tutto.
Più che di atmospheric black metal sarebbe il caso di discutere di cosmic black metal, in virtù delle tematiche trattate. Il confine fra i due sottogeneri tuttavia è assai labile poiché essi si sovrappongono quasi specularmente. Il quasi è per indicare che, tuttavia, in effetti qualcosa di diverso c’è, ed è insito nella natura di chi ama osservare in alto, verso il cielo, invece che in basso, verso gli inferi. Il che dona ai Lazer Throne, per entrare nel merito, una visionarietà sconvolgente che rimanda, per davvero, a infinitamente lunghi viaggi interplanetari, girovagando fra gli astri nelle parti più nascoste e meno visibili del Cosmo sconosciuto.
Il Nostro si dota di un’abbondante dose di ambient (“Her Tomb, a Vessel to Stars“), per dar vita alle sue creazioni, mischiato con assoluta perfezione a furibondi, violentissimi attacchi sonori che, assieme ad altri dettami, formano la base del metallo nero. Le quattro suite che compongono il full-length sono vere e totali immersioni nelle parti in cui l’Universo è rado di atomi. Ove si raggiunge, quasi, lo zero assoluto, e il buio è pressoché totale se non punteggiato pallidamente da stelle e galassie lontane.
È qui, allora, che Lazer Throne può srotolare le sue meravigliose melodie in lungo e in largo, tirate da ogni lato dalla furia dei blast-beats. I quali, come se si fosse all’interno di un buco nero, deformano lo spazio-tempo consentendo il passaggio da una parte all’altra del quadrante stellare. L’equilibrio fra violenza (musicale) bruta e armonie celestiali è rispettato sempre e comunque, svelando il talento dell’artista americano nell’elaborazione di uno stile proprio, personale, magari non originalissimo (p.es.: Mesarthim) ma comunque facile da memorizzare e soprattutto riconoscere in mezzo ad altri.
Non solo lo stile, però. Anche le canzoni, così lunghe, non si sfilacciano nel loro incedere a tratti delicato, a tratti possente. Il che non è per nulla semplice, quando si superano i quindici minuti di vita. In esse, lo screaming disperato del mastermind di Tucson squarcia le budella per quando sofferto sia. Completamente immerse nella matrice armonica, le linee vocali si comportano come i getti di gas bollenti provenienti dal Sole, lasciando il segno di bruciature sulla pelle tant’è il rifiuto della vita sulla Terra. Perché così è. Il cosmic black metal porta all’eccesso il nichilismo, l’anticonformismo, la voglia di solitudine del genere-madre, creando le condizioni, almeno teoriche, per una fuga definitiva dalle gesta di quell’orrore strisciante che si chiama genere umano.
Per quanto detto sopra, quindi, per i notevoli contenuti emozionali, nonché per la quantità di note presenti, “Tomb of the Lunar Oracle” e un’opera da ascoltare e riascoltare innumerevoli volte, mostrando in tal modo una longevità eccezionale. I brani, ogni volta che s’intrufolano nella mente, riescono sempre di più a scatenare sentimenti di mestizia, in particolare una profonda tristezza, generando lo stato d’animo necessario a diventare iper-sensibili e quindi partecipi dei contenuti artistici inventati dal genio compositivo di Lazer Throne.
Fra essi spicca proprio l’opener-track “Her Jeweled Skull Shines No More“, in cui si viene frastornati, storditi da una melodia così magnifica e commovente che, da sola, può benissimo essere l’ultimo contatto con la vita prima di morire. Ma anche volare verso luoghi sconfinati seguendo gli echi di mondi lontani, in cui nascono e giacciono i sogni, illusioni di una felicità che non esiste.
Tutto questo, e tanto altro, è “Tomb of the Lunar Oracle“.
Daniele “dani66” D’Adamo