Recensione: Truth in Unity

Di Vito Ruta - 29 Settembre 2020 - 0:05

L’italianissimo Chris Catena, singer con all’attivo una carriera ultratrentennale, coadiuvato dal prolifico chitarrista svedese Janne Stark propone “Truth in Unity”, frutto del progetto Rock City Tribe.
L’album sfoggia un elenco di guest stars interminabile, tanto da potersi prestare ad una nuova versione di trivial musicale: “Guess the guest”, per chi voglia cimentarsi ad azzeccare quale ospite suona, in quale parte, di quale pezzo.
Dal roboante comunicato stampa e dalle dichiarazioni dello stesso Catena, anima e mente del progetto, il lavoro, che ha richiesto dieci anni di gestazione, con registrazioni in studi sparsi per il mondo, costituisce una sorta di summa dell’hard rock anni settanta.

Confesso di essermi accostato con malcelata diffidenza a quella che viene presentata come una epopea dal sapore arturiano (un eroe dal cuore puro vaga per due lustri alla ricerca di campioni che si uniscano alla sua missione di salvare e tramandare lo spirito dell’hard rock) ma che, brano dopo brano (l’album ne offre ben quindici), ogni riserva è stata spazzata via.
La folle macchina del tempo della Chris Catena’s Rock City Tribe ci trasporta nell’epoca d’oro dell’hard rock non solo grazie alle sonorità, che non faticherete ad accostare a quelle di band del calibro di Deep Purple, Whitesnake e Rainbow, ma anche grazie allo stile compositivo.

Le promesse appaiono mantenute sin dall’inizio con “Angel City” che celebra L.A, città rock per eccellenza, con le sue luci e ombre. Un pezzo energico che offre un riff rabbioso, contaminazioni funk e un accattivante refrain dal gusto vintage.
Il successivo “The Trickster” è un pezzo da capogiro. La non avara di emozioni “Down in The Black” prepara il campo a “Motorcycle Killer“, che ha sonorità più attuali, ma sempre nel solco della tradizione, e sfoggia un incantevole refrain.
Pregevole anche la successiva “The Seventh son“, che vede la partecipazione dell’icona Carmine Appice, batterista che non ha certo bisogno di presentazioni, in cui aleggiano atmosfere decisamente Whitesnake.
Un intro di banjo segna la deviazione verso il country rock della coinvolgente “Get ready“. Segue a ruota “My angel“, una ballad strappamutande, accellerata nel chorus, nella quale spicca un breve assolo acustico dai toni spagnoleggianti di gran gusto.
Still a fool ci riporta sulla strada maestra dell’hard rock che le successive “Who Knew” e “Living Wreck” tengono stabilmente.
Round the bend” è un pezzo forsennato, con assoli scatenati, che si apre con l’armonica del nostro eroe. “Fall of our Heroes” e “Freedom” sono forse i pezzi meno incisivi che, comunque, non abbassano l’ottimo livello dell’album.
Theme for a imaginary western” è la cover di un vecchio brano di Jack Bruce, ballad di spessore che potrebbe entrare di diritto -e non solo per il titolo-, assieme alle già citate “Get ready” e “My Angel“, nella colonna sonora di un film ambientato nel vecchio territorio di frontiera.
Il pezzo di chiusura “Ridin’ the freebird highway“, dalle sonorità Rainbow, merita un discorso a parte.

Introdotta da un fascinoso assolo dell’onnipresente Stark è una cavalcata che offre, nei suoi oltre undici minuti di durata, cambi di velocità e assoli stratosferici, e si conclude in un finale che non è esagerato definire da paura. Semplicemente stupenda.
L’ecclettica voce di Chris Catena è assolutamente convincente per l’intera durata dell’album che presenta un livello tecnico davvero elevato e un missaggio ineccepibile.

In alto i calici, rendiamo onore a Chris Catena e ai guerrieri della sua tribù che sono riusciti nella nobile impresa.
Lo spirito dell’hard rock è vivo e illuminerà della sua fulgida luce il mondo per altri mille anni.

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