Recensione: Tunguska

Di Fabio Vellata - 15 Settembre 2018 - 0:01
Tunguska
Band: Treat
Etichetta:
Genere: Hard Rock 
Anno: 2018
Nazione:
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84

A parlare di garanzie si potrebbe avere l’apparenza dei bancari o funzionari di qualche istituto di credito.
Oppure si potrebbe descrivere un qualcosa o qualcuno che, in un modo o nell’altro, fornisce sempre delle risposte inequivocabili. Certe, sicure. 
Del tipo che “non si sbaglia” mai a puntarci sopra.
Un nome “garantito”, per l’appunto.

Se volessimo estendere questa improbabile sciarada al campo musicale, si entrerebbe gioco forza in un territorio un poco più periglioso, alla ricerca di qualche soggetto che, in un modo o nell’altro, tali garanzie – in questo caso di qualità – le ha offerte sempre e comunque.
Via, siamo onesti: pochi, pochissimi i gruppi che nell’arco della carriera non hanno quasi mai toppato almeno una volta con un disco deboluccio, una svirgolata imprevista all’inseguimento di qualche trend o effimero successo commerciale. Un’uscita interlocutoria o del tutto trascurabile.
Eppure band simili, pur se in netta minoranza, esistono. Eccome.
E tra queste – parere forse personale, ma nemmeno troppo – rientrano di diritto gli svedesi Treat.
Fenomenali nella loro prima parte di carriera, tanto da diventare uno dei gruppi di punta del movimento hard rock europeo, i Treat hanno saputo ripartire nel 2006 con un rientro in scena di grande impatto, suggellato da due gioiellini come “Coup de Grace” del 2010 e “Ghost of Graceland” del 2016. Due album che almeno l’ottanta per cento delle band in circolazione farebbe fatica anche solo a concepire.
Tunguska” – titolo ad effetto che si ricollega alla misteriosa esplosione siberiana del 1908 – è quello che, nelle intenzioni del gruppo, dovrebbe rappresentare il terzo capitolo di una ipotetica rinascita artistica. Quello definitivo e più completo.
Qualcuno lo chiamerebbe, si trattasse di una cricca d’imberbi senza il background riferito poc’anzi, “il disco della maturità”.

Di testare la preparazione e la presunta maturità di Robert Ernlund, Anders Wikstrom e Jamie Borger, onestamente, non ci verrebbe mai nemmeno in mente.
Proprio perché i Treat sono un nome “sicuro”. Come si diceva all’inizio, “garantito”. O per tornare alle metafore finanziare d’apertura, “un investimento certo”, che promette sempre e comunque buoni frutti, qualunque siano le condizioni.

Proprio così. Anche questa volta al quintetto scandinavo non mancano i numeri e le canzoni per ottenere plauso, rispetto ed elogi. Sornionamente. Con un pizzico di furbizia. Ma pure con grande convinzione nei propri mezzi e capacità.
Come succede ogni volta, in un disco dei Treat c’è parecchio da scoprire: basta lasciar partire la tracklist e la magia si compie.
Questa volta però, con un piccolo dettaglio in più: sono necessari un paio di ascolti per familiarizzare con “Tunguska”, fatto già di per se straordinario nella lunga carriera di una band che ha fatto spesso dell’immediatezza una bandiera imperativa.
Un segno inequivocabile di come il gruppo stavolta abbia cercato di lavorare più in “profondità”, nel tentativo di proporre qualcosa di orecchiabile e piacevole, ma parimenti duraturo e destinato a “rimanere”.
Un bersaglio colpito in pieno, verrebbe da pensare, giacché anche per “Tunguska” l’effetto ottenuto è sempre quello. Si ascolta, si riascolta e si ascolta ancora.
Perché ad ogni giro continua a convincere. Perché come nella migliore tradizione del songwriting di classe, presenta spunti nuovi ad ogni passaggio. Perché i brani vivono di anima propria, hanno un trademark inconfondibile che ne dichiara l’appartenenza e soprattutto, conservano intatti tutti i sapori che la band di Stoccolma ha sempre proposto come esclusivi e peculiari.
I Treat sono i Treat, insomma, non hanno bisogno di atteggiarsi, di somigliare o di prendere in prestito qualcosa a qualcuno.

Le canzoni, pur molto spesso parecchio dissimili tra loro, mantengono sempre un tratto distintivo che le riconduce ai propri creatori, definendo, una volta tanto, la significativa differenza che sussiste tra chi si accoda ad un genere e chi quel genere, al contrario, ha contribuito a crearlo.
Ed il bello – delizia per un umile recensore – è che proprio per questo motivo la solita, un po’ stucchevole, citazione di brani si rivela piuttosto inutile e priva di significato. I pezzi belli, di qualità, ci sono. Ognuno (anche il sottoscritto) ne troverà di certo alcuni migliori di altri. Ma tutto l’album, in ogni singolo episodio, presenta motivi d’interesse per cui meritare di essere apprezzato nella sua interezza, dal principio alla fine.

È di certo troppo presto per definirlo “capolavoro”: il nuovo disco dei Treat è ancora in “evoluzione” nel nostro stereo ed in fase di ulteriore, costante, “crescita”.
Ma proprio per questa ragione, l’idea che se ne trae è di qualcosa di nuovamente importante, di ben fatto, concepito per andare oltre la routine di prodotti belli ma poco longevi.
La risposta la avremo tra un po’.
Intanto continuiamo ad ascoltarlo, come si suol dire, “a nastro”: mal che vada, dovesse capitare che tra qualche mese ce ne saremo scordati, i momenti di ottima musica che ci ha regalato saranno stati comunque più che sufficienti a decretarne il successo.

L’ennesimo!

 

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