Recensione: Unleash the Fury

Di Riccardo Angelini - 18 Agosto 2005 - 0:00
Unleash the Fury
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Anno: 2005
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70

Vista la ritrovata forma fisica dimostrata nelle sue ultime apparizioni on stage e i barlumi di lucidità compositiva emersi dal precedente Attack!!, aspettavamo con una certa trepidazione questa nuova uscita discografica di casa Malmsteen. Ma, diciamolo senza ritrosie, ad ogni nuova fatica della chitarra neoclassica per eccellenza, alla mente si affacciano, insieme, un’inossidabile certezza e un titubante interrogativo. La certezza verte, come molti di voi già intuiranno, sul piano stilistico. Il granitico immobilismo del funambolo scandinavo, a venti e più anni dall’esordio discografico, è ormai una prassi tanto consolidata da non fare più notizia. Chi acquista un album dei Rising Force sa esattamente con che genere di musica avrà a che fare, le sorprese eventualmente possono giungere da un diverso versante, quello cioè della qualità. E’ con questa, invece che coi suoni, che Yngwie pare aver cominciato a sperimentare sul serio, soprattutto nelle sue ultime creazioni: produzione fatta in casa, fugaci incursioni dietro il microfono, composizioni piuttosto ispirate affogate in un oceano di banalità, scale di brani in continua dilatazione, come per tenere il passo di quelle percorse all’infinito sulle sei corde.
Mai come oggi le premesse sono parse in aperta contraddizione. Da un lato non mancano elementi di apparente buon augurio. La rinnovata condizione fisica dell’acrobata neoclassico e lo stesso autorevole monicker depongono a favore di quanti scommetterebbero su un ritorno in grande stile. Inoltre, incredibile ma vero, per l’occasione Yngwie ha confermato (quasi) in blocco la formazione dell’ultimo full-lenght, e ancora una volta si è avvalso dell’ugola duttile e potente di Dougie White e delle impennate ritmiche di Patrick Johansson. Solo le tastiere sono state sottratte al pur ottimo Derek Sherinian (tacciano le malelingue!) per essere affidate alla new entry Joakim Svalberg. Stiamo chiaramente parlando di musicisti di altissimo livello, quindi non ci soffermeremo più di tanto a declamare capacità tecniche e meriti personali: osserviamo solo che il mancato ripulisti deve aver sicuramente giovato alla compattezza della band. Ma quel che interessa ai tantissimi fans dello svedese è la sua vena creativa, negli ultimi tempi spesso offuscata da una carenza d’idee se vogliamo fisiologica, visti i tanti anni di carriera alle spalle, ma a tratti davvero preoccupante. E, in questo senso, il biglietto da visita pare oggi quasi inquietante. Registrazione ancora una volta all’insegna del fai-da-te (ma il mix almeno è di Mike Fraser, già al servizio di AC/DC, Aerosmith, Metallica, Van Halen…) una tracklist di diciotto brani (diciotto!) che fa temere sul serio per la cura degli stessi, un artwork plateale, che, se da un lato può incuriosire, dall’altro, per essere un inno alla semplicità, pare tanto un inno al risparmio. Il timore è che, a tanta quantità, non corrisponda un’adeguata qualità. La speranza è che, una volta tanto, i proverbi trovino riscontro nei fatti, e l’apparenza inganni davvero.

La reazione di fronte a questi settantadue minuti di musica, davvero tanti se pensiamo al genere proposto e alla completa assenza di quelle lunghe suite tanto di moda sugli album metal, dipende in ultima istanza da un fattore fondamentale: l’approccio. Le ben 18 tracce presenti, fedele riproposizione di tutti i cliché appartenenti al Malmsteen-pensiero, potranno deludere o conquistare a seconda delle vostre aspettative nei loro confronti. Chi li esaminasse con orecchio severamente critico, avrebbe certo di che lamentarsi non solo per il forte gusto di già sentito dei riff portanti, ma anche per la loro reciproca somiglianza, cosicché ben presto la contemplazione di tanto auto-compiacimento strumentale finirebbe per sfociare in un’inguaribile noia. Chi invece cercasse semplicemente un pugno di brani capaci di far bene il loro dovere potrebbe emanare un giudizio assai più mite e soddisfatto. Ma veniamo al dettaglio.
La furia ritmica della rampante opener Locked & Loaded parrebbe l’occasione buona per mostrare i canini, ma la mancanza di linee vocali di rilievo segrega il brano in un antro di sterilità melodica che, purtroppo, non è il solo a occupare. Già netto il passo in avanti con l’up tempo Revolution, la cui esemplare struttura riporta alla mente le idee migliori di Alchemy, mentre un discreto velo tastieristico fregia la canzone di quel manto trionfale che tanto piacerà agli amanti del neoclassico. Sfortunatamente l’indice di gradimento torna ad abbassarsi già nella rocciosa Cracking the Whip, fin troppo controllata nella sua cattiveria posticcia e tutt’altro che minacciosa, con un Dougie White non proprio arrembante a interpretare melodie di nuovo inadeguate.
Ma facciamoci strada tra una selva di alti – l’epico mid tempo Winds of War, dal sapore squisitamente retrò, o Beauty and the Beast, speed-song di gran pregio che, nonostante una certa piattezza melodica, gode di una sezione ritmica in grande spolvero e di una brillante fase solistica – e altresì bassi – i forzati modernismi di The Bogeyman, che affossano un discreto bridge in un refrain imbarazzante, o la banalità neoclassica di Crown of Throns, surrogata da un testo affatto pacchiano – per raggiungere le verdeggianti praterie di Cherokee Warrior. Venti di blues soffiano sulle corde di una Stratocaster consapevole debitrice di Hendrix per diffondere il cantato caldo, maturo e sorprendentemente carismatico di uno Yngwie diviso senza affanno tra chitarra e microfono: un altro degli acuti del disco, e il merito va proprio all’insolito singer che a tratti risulta ancor più coinvolgente rispetto al veterano White.
Abbiamo però tralasciato per strada la prima e più breve delle quattro strumentali dell’album, stiamo parlando della barocca Fuguetta, che forse l’esigua durata avrà indotto qualche frettoloso ascoltatore a tacciare di presunta inutilità: un grosso errore, poiché la parentesi è breve quanto piacevole, al pari delle altre tre mute sorelle, che offrono alcuni tra i fraseggi migliori del lotto. Tra queste, i momenti più apprezzabili giungono quando il nostro virtuoso dell’arpeggio si lascia andare nella splendida Guardian Angel, che ricorda non poco la vecchia Crying: un po’ di sana melodia neoclassica per orecchie ancora memori dei tempi che furono. Valida anche la dinamica Magic and Mayhem, che, pur senza stupire più di tanto, dà sfoggio di buoni intrecci solistici e ritmiche vivaci. Il compito di completare il poker strumentale tocca alla breve Paraphrase, che chiuderà l’opera con il solito cappello acustico neoclassico d’indubbia classe, benché forse un po’ troppo abusato.
E se non sempre le accelerazioni riescono a cogliere nel segno, come dimostrano la saettante ma prevedibile Let the Good Times Roll o l’incalzante Exile, ultima mazzata in doppia cassa del disco che però a dire il vero non lascia traccia di sé anche dopo diversi ascolti, è quando i ritmi rallentano che si cominciano a vedere spunti più interessanti. Accanto a tanti assoli ad alta velocità c’è infatti tempo per l’incedere mastodontico e quasi doom (quasi!) della massiccia Revelation (Deal with the Devil). Tanta oscura lentezza pare relativamente insolita rispetto allo stile del Malmsteen cui siamo abituati, e forse questo la renderà per qualcuno particolarmente intrigante. Ancora qualche passo avanti per commemorare i tempi in cui l’allora giovane chitarrista proclamava orgoglioso la propria identità vichinga – ricordate il brano di Marching Out? – con la fiera The Hunt, nella cui maestosa strofa si ode l’eco guerresco del R.J.Dio più combattivo. Poi una Russian Roulette dal refrain fin troppo anonimo e privo di mordente si concede il lusso di lasciar credere che i colpi migliori siano ormai esauriti, quando ecco che viene sferrato l’affondo più incisivo. Stiamo parlando della pomposa Unleash the Fury, un inno orgoglioso e potente, esaltante col suo marziale incedere e straripante nell’aulico chorus che fin dalla prima ripetizione penetra con solide radici la memoria a lungo termine dell’ascoltatore.

Alti e bassi dunque, com’è prevedibile quando l’indice riporta quasi venti capitoli. E all’ascoltatore toccherà stabilire da che parte far pendere la bilancia. Qualcuno, considerata la lunghezza dell’album, la rilevanza di un guitar hero come lo svedese e le conseguenti elevate aspettative accumulate negli ultimi tre anni, resterà forse deluso da un’uscita che di certo avrebbe potuto (dovuto?) esprime contenuti più consistenti. Ugualmente, chi fosse in cerca di novità potrà tranquillamente e senza rimpianti volgere lo sguardo altrove. Gli attuali momenti positivi possono infatti apparire troppo poco nel mare di opacità creativa in cui naviga l’odierno Malmsteen: i fasti che fecero brillare la sua stella nelle due scorse decadi sono indubbiamente lontani anni luce. Ma se il vostro amore per il neoclassicismo più puro e intransigente non è stato logorato dal tempo, o se la mancata conoscenza dei gloriosi giorni che furono vi permette di risparmiarvi impietosi confronti, ecco che qui troverete pane per i vostri denti. Tutto, l’avevamo detto, dipende dalle vostre aspettative.

Recensione a cura di Riccardo Angelini e Matteo “once” Lasagni.

Tracklist:
1.Locked & Loaded
2.Revolution
3.Cracking The Whip
4.Winds Of War (Invasion)
5.Crown Of Thorns
6.The Bogeyman
7.Beauty And A Beast
8.Fugetta (Instrumental)
9.Cherokee Warrior
10.Guardian Angel (Instrumental)
11.Let The Good Times Rool
12.Revelation (Drinking With TheDevil)
13.Magic And Mayhem (Instrumental)
14.Exile
15.The Hunt
16.Russian Roulette
17.Unleash The Fury
18.Paraphrase (Instrumental)

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