Recensione: Up

Di Eric Nicodemo - 2 Luglio 2013 - 19:45
Up
Band: Le Roux
Etichetta:
Genere: Hard Rock 
Anno: 1980
Nazione:
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87

Ricordati per la canzone “Addicted” e per aver ospitato, in “So Fired Up”, Fergie Frederiksen dei Toto, i Le Roux sono diventati dal 2011 una pregevole aggiunta al catalogo della Rock Candy Records.
Pregevole perché la loro terza opera, “Up”, è un disco che tra i giganti dell’hard rock merita attenzione per l’originalità della scrittura, ricca di soluzioni inedite, che confluiranno nel panorama AOR.
La band nasce a Baton Rouge (Louisiana) ad opera di Leon Modica (basso) e Jeff Pollard (lead vox, chitarra).

Inizialmente, il sound del combo affonda le radici in un rock di matrice folk con inflessioni southern, per poi virare verso sonorità sempre più radiofoniche a partire proprio dal suddetto album.
La produzione viene affidata a Jai Winding (Molly Hatchet, Warren Zevon), un session musician che conferisce al lavoro un suono pulito, facendo risaltare in egual modo parti strumentali e cantato.       
La tracklist si apre con “Let Be Your Fantasy”, ruvido hard rock marchiato dall’apertura trascinante della chitarra con il tintinnio dei piatti in sottofondo: la voce è carica e calda fino ad elevarsi nel refrain contagioso, prolungando la durata dei backing per ricreare la tensione passionale espressa nei versi del chorus (Baby let me be, Baby let me be your fantasy, Baby do you want, Baby do you want my love… Baby let me be the vision you’ve be dreaming of…).
Si frappone tra il secondo ritornello e l’ultimo un pattern che accelera diventando sempre più convulso e frenetico per poi stemperarsi in un mid tempos incedente, l’inserto ideale per rendere il songwriting vario e coinvolgente.

L’energia sprigionata dall’opener è cooptata dal refrain di “Get It Right The First Time”, dove il chorus sospinto e controllato al contempo è interrotto dal guitar solo su scale di tonalità decrescente.  
“Mistery” è un altro classico imperniato sul piano insistito che imposta la linea melodica del brano, costruita su scorci chitarristici e sulla voce roca e sanguigna del cantante, abile nel rendere la timbrica più enfatica e armoniosa nei versi finali del ritornello.
L’atmosfera malinconica di “Roll Away The Stone” risiede in un ritornello semplice ed elegante che ascende su tonalità alte ma tenui (visto anche il tema della canzone, che richiamerebbe un famoso episodio tratto dalla tradizione cristiana…).

L’anima più bluesy del complesso emerge in “It Could Be The Fever”: chitarra “torrida” e voce roca  inserite all’interno di un contesto tastieristico rigorosamente seventies (anche per quanto concerne il soggetto… ben diverso da quello di “Roll Away The Stone”!). Lo spirito jazz’n’blues del brano deriva dal percorso musicale di Leon Medica (basso), che nella sua carriera di sessionman aveva collaborato con artisti blues locali (Clarence Edwards, Henry Gray) e con la Chuck Berry’s band, nonché svolse il compito di opener per importanti nomi quali The Who, Santana, The Eagles e Fleetwood Mac.  

“I Know Trouble When I See It” narra i problemi legati al music business: la voce grintosa hard’n’blues di Pollard rispecchia il riff roccioso dell’accompagnamento, seguendo una schema che alterna un sezione musicale cadenzata ad una più decisa e andante in corrispondenza del repeat.
È facile immedesimarsi nella storia di “Waiting For Your Love” grazie al suo bending emozionante e agli inframezzi della keyboard: l’ascoltatore rimane coinvolto dall’alterco tra il main vocal, vigoroso e “rude”, e il coro sfumato, che nell’ultimo verso prima rimane brevemente sospeso e, poi, quasi impercettibilmente, discende, con tono sognante, seguito dall’immancabile spigoloso guitar solo.                 
La ritmica assume maggiore risalto all’inizio di “Crying Inside” con un breve, grezzo accordo di     chitarra eseguito ad “intermittenza”; più avanti, la sei corde è mutevole e arricchisce la canzone con dissonanze e distorsioni; la voce non solo si alterna in primo piano con il suono della chitarra ma varia la propria velocità lungo tutto il brano.

A chiudere questo masterwork, il triste andamento del piano di “I Won’t Be Staying”, dove Jeff Pollard si sofferma in un cantato ricco di pathos; la sofferenza si attenua mutando in un vocal più surreale, di tonalità maggiore, che lascia il testimone a un languido e acuto vibrato delle chitarre, secondo una sapiente divagazione strumentale (vibrati intrecciati a giri armonici).

Gli assolo si stagliano sempre più vividi e intensi nel finale, quasi a ricordare che un album può emozionare e avvincere senza vendere milioni di copie.  

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