Recensione: Walk The Earth

Di Luke Bosio - 20 Ottobre 2017 - 11:02
Walk The Earth
Band: Europe
Etichetta:
Genere: Hard Rock 
Anno: 2017
Nazione:
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70

Ovidio nel suo poema ‘Le Metamorfosi’ narrava di Dei dispettosi che per capriccio volevano trasformarsi in uomini. “Walk The Earth” non è un poema, bensì il nuovo album degli Europe e racconta di cambiamenti, ma non di Divinità bensì di strimpellatori svedesi, un tempo giovani ammiccanti rock star che – durante la seconda fase della loro carriera – col passare del tempo desiderano diventare musicisti di alto rango. Tutto questo per lasciare ai posteri un segno tangibile del loro passaggio su questa terra. E’ bene sgombrare il campo da ogni dubbio: i cinque scandinavi non hanno mai goduto di una buona nomea tra il pubblico metallaro (specie) maschile. Il motivo non è mai stato pienamente chiarito, sebbene un quarto dei ragazzi nati negli anni ’70 ha mosso i primi passi in campo hard’n’heavy proprio con gli autori del famoso (o famigerato?) “The Final Countdown”, brano perfettamente calibrato tra tastieroni pompati, cori demodé ed un chitarrismo rombante quel che basta. Ora pero’ siamo nel 2017, e quella band non esiste più da tanto tempo.

Il finire di stagione ci porta ad affrontare il nuovo e imminente album dal titolo “Walk The Earth“, un concentrato di puro vintage hard rock, con alcune avvisaglie heavy metal ricamate in ogni brano dalla pungente chitarra di John Norum con il suo rifframa impetuoso proveniente da un girone infernale a vostra scelta, tanta è la carica immessa dentro la sua sei corde. Comunque sia, la risposta che tutti vogliono è una sola: “Walk The Earth” è al livello del precedente – e splendido – “War Of Kings” o addirittura superiore? La risposta per ora è NO! E un pelo sotto, ma la qualità è sempre altissima, state tranquilli! Rispetto al precedente album parrebbe che le canzoni contenute in “Walk The Earth” siano un pelo sbrigative e meno arrangiate. Il disco è buono, lo tengo a precisare, ma al momento, non mi ha stupito e neppure entusiasmato. Vuoi perché il fattore novità straniante presente nell’album precedente non c’è più, o anche per il fatto che ci sono veramente tanti, forse troppi accostamenti con un disco ultra-famoso uscito alcuni milioni di anni fa con il quale, leggendo, farete nuovamente amicizia. Se avete ascoltato la title-track (e so che l’avete fatto) resa disponibile dall’inzio di settembre sulle piattaforme digitali, vi sarete imbattuti in un brano dalla matrice inglese dominante. Una danza gitana attorno al fuoco sulla spiaggia a mezzanotte che abbraccia il movimento erotico di “Kashmir” dei Led Zeppelin e l’enfasi epicheggiante di “Perfect Strangers” dei Deep Purple. Gli inserti orientaleggianti del duo Michaeli/Norum regalano brividi autentici, Tempest si esprime con classe e calore tra le tessiture barocche esaltandosi nel perfetto chorus. Un buon contro altare all’immensa title-track del precedente album che ci fa intendere come la band ultimamente cerchi di condensare i maggiori sforzi proprio nel brano principale dell’opera. Ottima partenza, non c’è che dire.

Gli scarsi 3 minuti di “Kingdom United” ci fanno drizzare subito  le antenne complice un minaccioso intreccio di batteria, tastiere e chitarra che apre il pezzo per una composizione aggressiva debitrice alle progressioni del trio Petrucci/Portnoy/Rudess dei bei tempi che furono. Dopo un paio di ottime strofe vocali di Tempest, arrivano cori da brivido che tanto devono agli Uriah Heep di inizio carriera e qualche similitudine va rintracciata anche con le voglie progressive dei maestri King Crimson, quelli di “In the Court of The Crimson King”. Norum esplode prima con un break azzeccatissimo doppiato da basso e tastiere in maniera spettacolare e successivamente con un assolo F-A-V-O-L-O-S-O ! Questa poteva essere una magnum opus di grande rock progressivo, quelle perle da regalare ai posteri, ma la band taglia corto e ci sbatte la finestra in faccia appena le cose iniziano a farsi interessanti! Sacrilegio! Sembra che non abbiano voluto osare su un territorio di cui ormai sono diventati padroni! Sono sconcertato! Il pezzo è da 10 lo sviluppo non c’è…disarmante! “The Siege” riporta in sala d’ascolto tutti i membri dei Deep Purple per mettere in musica tematiche storiche che illustrano l’assedio della Bastiglia durante la rivoluzione francese del 1789. Le tastiere sono predominanti mentre la sezione ritmica si esalta maggiormente, eccellente il crescendo nella parte centrale dove (ancora una volta) Norum ci regala una teoria di assoli siderali che nel rallentamento sfociano in una serie di vertiginose evoluzioni su un tappeto ritmico sostenuto. Grande prestazione da parte di Tempest, la sua interpretazione è intensa e carica di sentimento. Lo smalto è quello dei vecchi tempi se non addirittura meglio. Un brano immenso che non avrebbe fatto nessuna fatica a trovare posto nel capolavoro “Perfect Strangers” (le riconoscete le tastiere?) del 1984, qui per la seconda volta chiamato in causa come musa ispiratrice! Stessa sorte la riserva “Election Day”, anch’essa figlia legittima dei ‘perfetti stranieri’ del 1984, meno drammatica e intensa del brano precedente e con un refrain lasciato più aperto e libero da parte di Joey Tempest. In questo caso viene espresso un senso profondo di ribellione al potere politico, un disegno metaforico in cui i più deboli trovano la forza di ribellarsi al potente attraverso il Rock’N’Roll !!! Insomma, le recenti elezioni presidenziali in America e Inghilterra con tanto di Brexit, non devono aver lasciato Tempest indifferente. Poco altro da aggiungere, gli Europe respirano a pieni polmoni la ‘porpora viola’ e la trasformano plasmandola con il loro stile.

Il parziale capolavoro dell’intero lavoro porta per titolo “Pictures”. Questo brano è completamente differente da quanto ascoltato sinora, trattasi di uno spaccato sul rock inglese degli anni 70, dove lo spettro del fu Duca bianco s’impossessa di un Joey Tempest ispiratissimo, accompagnato con maestria da chitarra acustica e tastiere che stendono un tappeto malinconico per un testo da cuore in mano. “Escaping to the light of the moon and the shooting stars… to where… you are!” canta ripetutamente Tempest. Le sue liriche sono tormentate e il testo ha un certo tono dark che persiste lungo tutto il disco. L’entrata di Norum è stupenda e molto Gilmouriana….ma dannazione viene sfumata?!? Perché non dare maggior spazio alla partitura di questo eccellente chitarrista svedese nel gran finale? Perché non elevare il minutaggio? Non dico di diventare i Dream Theater, questo no…. ma fatemi ‘esplodere’ questa canzone. Sviluppatela  maggiormente! “Stairway To Heaven” non viene certo ricordata solo per i suoi primi minuti, ne tanto mento “Hotel California” degli Eagles! Entrambe lo sono nella loro interezza. Scelta scellerata a parer mio, che lascia l’amaro in bocca dopo averci fatto venire brividi e scendere lacrimoni. Comunque sia, una forma-canzone che gli Europe avevano accantonato sul precedente “War Of Kings” centra pienamente il bersaglio questa volta confezionando una ballad concepita con gran gusto e la consueta classe. “Wolves” è la canzone ‘stronza’ e antipatica del disco, quella scritta per far storcere il naso e non piacere proprio a nessuno. Il brano mi infastidisce e procura seri grattacapi. Complice anche quel ritornello paranoico simil grunge alla Alice In Chains. Brano straniante che a tratti sfiora i confini della psichedelia dark degli anni 80. Fortunatamente Norum riprende in mano le redini del gioco, donandoci un altro assolo da ricordare negli anni. Torneremo ad ascoltarla più che altro per risentire unicamente quell’assolo. Bocciata sia la struttura che lo svolgimento. Invece “GTO” la voglio assolutamente sentire dal vivo! Il brano appare come una composizione dei Rainbow più radiofonici e strizza l’occhio al lucroso mercato americano dei begli anni che furono, le soluzioni adottate sono sempre affascinanti ed il vero limite della composizione è che si esaurisce troppo in fretta. Splendida in tutto. Gran tiro metallico. Bravi Europe!

“The Haze” mi fa per un attimo credere che abbiano messo una traccia sbagliata nel nuovo album degli Europe, dato che i giri iniziali sono identici a quelli di “War Of Kings” rimessi in atto per l’occasione. Brano con riff di chitarra ipnotico, oscuro e cadenzato ma ripetuto forse un po’ troppo, così come il titolo della canzone ripetuto sovente a mo di inno-urlo. Un brano così-così che non mi ha del tutto convinto sin dai primi ascolti. “The Haze” vuole essere a tutti i costi epica e accattivante laddove non ne sentivamo bisogno. Lo stacco – quasi in coda – di Ian Haugland non è malvagio, ma poteva essere sfruttato molto meglio. Il solito Norum salva la baracca dall’inevitabile crollo verticale: una canzone abbastanza inusuale e inutile. Ci avviamo verso il finale dell’album ma prima c’è ancora “Whenever You Are Ready”, brano essenziale che dice tutto quello che c’è da dire in neanche tre minuti. Parte subito in quarta con un sostenuto 4/4 circondato e difeso da un brillante giro di tastiere. Dritta al punto… Non si fanno fermate. Se non fosse per le sonorità fortemente settantiane del sound dell’intero album, questo brano non avrebbe sfigurato come hit single estiva negli anni Ottanta a giocarsela con chi c’è l’aveva più lungo tra Dokken, Ratt e Great White. Ci siamo capiti! Tanta melodia e mestiere nella conclusiva “Turn To Dust” con gli spartiti dei Deep Purple sempre posti in bella vista. La band qui dà il meglio di sé: struttura sincronizzata perfettamente con i vari strumenti e Tempest che se la cava in maniera egregia essendo alle prese con un brano molto impegnativo. Un assolo blueseggiante alla Gary Moore di Norum suggella il tutto per un episodio il cui svolgimento ci pare al fin completo. Finalmente si arriva ai sette minuti di durata. Applausi a scena aperta dunque, direte voi? Eh no invece…ridicolo il taglio perpetrato e del tutto inopportuno il siparietto finale che vaneggia sul Broadway jazz-style anni ’30. Non ci sembrava davvero il caso di troncare così una composizione molto curata a cui sarebbe spettata miglior sorte. Insomma manca sempre qualcosa per prendere la medaglia d’oro. Lo sappiamo: a volte le scelte dei produttori sono assai stravaganti.

I momenti di riflessione/discussione/scontro che scaturiranno dall’ascolto di “Walk The Earth” saranno molteplici, sicuramente. Questo disco ci fa capire che gli Europe sono ‘in odore’ di sostituzione (i Deep Purple sono in regime fisiologico di armistizio) e gli svedesi potrebbero subentrare in campo da un momento all’altro. John Norum è quel qualcosa in più che tutte le band dell’universo vorrebbero avere al loro fianco e brilla come un sole nascente durante tutto l’arco del nuovo lavoro. Il disco, secondo il mio parere, poteva essere migliore se fosse stato lavorato maggiormente a livello compositivo. In ambito hard rock non puoi sbrigartela alla spiccia con brani di 3 minuti e a tal proposito Black Country Communion insegnano. Se nel 2015 “War Of Kings” aveva pugnalato a morte ogni velleità superstite degli Europe modello supercafone con permanente e lucidalabbra, “Walk The Earth” ne sancisce la morte cerebrale e seppellisce il cadavere della band Made in the 80’s sotto sei metri di terra. Un disco nel suo insieme importante, che, come il precedente parto, allontanerà tanti fans e ne farà guadagnare certo di nuovi alla band. Una band che sembra intenta a muoversi su coordinate vintage a loro care, cercando di riscrivere con i mezzi a loro disposizione, quella che fu una decade indimenticabile, quella degli anni ’70. 

 

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