Recensione: Written in Waters

Di Emanuele Calderone - 11 Settembre 2009 - 0:00
Written in Waters
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Anno: 1995
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88

Il 1994 fu uno degli anni più importanti per il black metal: gli Immortal uscivano da poco dall’esperienza di “Pure Holocaust” e cominciavano a lavorare a “Battles in the North”, gli Emperor avevano dato alle stampe quel capolavoro che porta il titolo di “In the Nightside Eclipse” ed in casa Darkthrone stava nascendo un altro masterpiece: “Panzerfaust”.
In quest’ottica di grande fermento colpisce la nascita, in quello stesso anno, di una band assai particolare che, pur partendo da una base black, riuscì a sconvolgere i canoni del genere e a dar vita a qualcosa di nuovo. Stiamo parlando dei Ved Buens Ende.

Fu grazie all’incontro dei musicisti Vicotnik (Code e Dødheimsgard), Carl-Michael Eide (Dødheimsgard, Satyricon ed Ulver) e Skoll (Arcturus, Ulver), che ad Oslo nacque questo progetto tra i più rappresentativi della scorsa decade in ambito avantgarde/post-black metal.
Il trio arrivò al traguardo del primo, e fin’ora unico, full-lenght dopo appena un anno dalla sua formazione, con questo “Written in Waters”. Un album spiazzante, che fece guadagnare ai norvegesi lo status di band di culto all’interno del panorama estremo, sebbene allo stesso tempo vennero ignorati da buona parte di pubblico e critica.

La proposta musicale del trio si muove su territori post-black metal, stravolto nei suoi caratteri portanti e “violentato” con contaminazioni tra le più disparate, presentando strutture vicine al progressive rock e svariate divagazioni d’estrazione jazz.
Ai riffs e alle ritmiche di chiara estrazione black, si accostano parti che richiamano i migliori acts dei gloriosi anni ’70, poggiati su ritmiche potenti e al contempo in continua progressione. La voglia di creare qualcosa di nuovo si nota da subito: le nove canzoni contenute all’interno di questo disco si mostrano, infatti, decisamente più complesse ed articolate rispetto agli standard del periodo. La voce si muove continuamente tra clean vocals calde e profonde (che richiamano, volendo, il lavoro svolto lo stesso anno dai conterranei In The Woods… in “Heart of the Ages”) e scream acide che, sebbene meno presenti rispetto alla voce pulita, si ritagliano prepotentemente uno spazio, arricchendo e brutalizzando il sound.
Il guitar-work è altrettanto vario, presentando riffs dissonanti, linee tanto distorte da risultare quasi fastidiose e parti soliste che richiamano sia il free-jazz sia melodie alla King Crimson. Basso e batteria disegnano ritmiche di volta in volta potenti, quadrate, mutevoli, capaci di adattarsi perfettamente alle melodie di voce e chitarra. Ottimo il lavoro in tutti i casi, con una nota di merito per Skoll, capace di sfoderare una prestazione di prim’ordine dietro al suo cinque corde.

L’apertura del lavoro viene affidata a “I Sang for the Swans”, brano che incorpora praticamente tutti quegli elementi a cui si faceva riferimento in precedenza. Apertura tipicamente progressive, continui cambi di tempo, chitarre con distorsioni che riportano alla mente il desert rock in più di un frangente. La prima parte, strumentale, è quella nella quale il trio da maggiormente sfoggio di capacità tecniche di primo livello. Nella seconda metà del pezzo entra in campo anche la voce di Eide che, grazie ad un tono particolarmente cantilenante e caldo, dona un’atmosfera teatrale con accenti piuttosto tetri.
Con la seconda canzone “You, that May Wither” si continua a seguire il sentiero battuto in precedenza con incursioni a cavallo tra il post-black, specie per quel che riguarda la sessione ritmica, e il desert rock.
“It’s Magic” anticipa di qualche anno alcuni spunti che sarebbero stati ripresi e sviluppati poi dagli Arcturus di “The Sham Mirrors”. Sebbene presenti meno sperimentazioni rispetto agli altri, il brano si fa lodare per il lavoro strumentale.
E’ con “Den Saakaldte” che le scream vocals compaiono per la prima volta in maniera chiara: la prima parte del pezzo viaggia su binari tranquilli, ma è verso i sei minuti che tutto viene stravolto. La canzone sfocia in un black metal dai tratti ancora progressive, con ritmiche forsennate e riffs potenti e saturi, che sostengono degli scream al vetriolo i quali, seppur non brillando per qualità, riescono a rendere l’atmosfera assai inquieta.
Le due tracce che tradiscono questa “consuetudine” di alternanza tra attimi pacati e altri più violenti sono la sesta “Coiled In Wings” e la settima “Autum Leaves”. La prima dotata di un’introduzione semi-jazz che si attesta su toni molto più tranquilli rispetto al resto del platter. Gradevoli anche le leggerissime influenze gothic sottolineate dai cori in sottofondo, realizzati dalla vocalist Lill Katherine Stensrud. La seconda, fortemente influenzata dal prog settantiano, invece, risulta uno dei migliori brani di questo “Written in Waters”, grazie alle sue linee melodiche quasi del tutto prive di distorsioni, e al duetto Stensrud/Eide, davvero efficace.
La seguente “Remembrance of Things Past” si ricollega invece a quanto sentito in precedenza, ricalcando la struttura di “Den Saakaldte”, con un risultato altrettanto convincente. A chiudere il lavoro ci pensa la breve “To Swarm Deserted Away”.

Per concludere, questo “Written in Waters” è un documento sicuramente unico nella scena avantgarde, capace di influenzare album venuti anche 10 anni dopo e in grado di dividere come pochi altri dischi sanno fare. Se siete ascoltatori di mentalità aperta e non avete paura di impiegare il vostro tempo su qualcosa di nuovo ed estremamente particolare, in questo disco troverete un capolavoro.

Tracklist:
01 I Sang for the Swans
02 You, that May Wither
03 It’s Magic
04 Den Saakaldte
05 Carrier of Wounds
06 Coiled in Wings
07 Autumn Leaves
08 Remembrance of Things Past
09 To Swarm the Desert Away

Emanuele Calderone

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