Progressive

TrueMetalStories: Myrath, il futuro arriva dal deserto

Di Marco Donè - 14 Luglio 2016 - 8:00
TrueMetalStories: Myrath, il futuro arriva dal deserto

 

TrueMetalStories: la rubrica in cui presentiamo band giovani e pronte a sfondare, o band di lungo corso che ancora non hanno ricevuto il successo che meritano.

Da Xtazy a Myrath

Ez Zahra, Tunisia, città situata a pochi chilometri dalla capitale Tunisi, Anno Domini 2000. Cinque giovani ragazzi provano a realizzare un sogno: fondare una propria metal band. Sono giovanissimi, la loro età varia tra i tredici e i quindici anni. Scelgono di chiamarsi Xtazy e, dopo un periodo di obbligatoria gavetta in cui suonano cover delle loro band preferite, nel 2005 realizzano il primo demo intitolato Double Faces. Otto tracce di progressive metal – i cinque tunisini sono fanatici dei Symphony X – in cui, nonostante la giovane età, i Nostri mettono in mostra ottime capacità tecniche e un songwriting curato, anche se troppo debitore a quelli che sono i loro punti di riferimento. La formazione, al momento, è cosi composta: Malek Ben Arbia – chitarra, Elyes Bouchoucha – tastiere e voce, Oualid Issaoui – chitarra, Zaher Ben Hamoudia – basso, Fahmi Chakroun – batteria.

La copertina della riedizione di “Double Faces”

Quando si rincorre un sogno chiamato Musica, il desiderio di diventare un musicista professionista, di poter vivere grazie alla propria passione, è ben noto che, oltre alle capacità personali, alla perseveranza, all’ambizione, al crederci sempre e comunque, a fare la differenza sono le coincidenze. Trovarsi al posto giusto nel momento giusto, trasformando, così, dei giovani aspiranti musicisti in predestinati. Questo è proprio ciò che è accaduto ai cinque tunisini che allora si facevano chiamare Xtazy. Sì, perché il 24 marzo 2006 i Nostri hanno l’onore di aprire il concerto di Robert Plant e Adagio all’anfiteatro romano di Cartagine. In quell’occasione i cinque ragazzi capitanati da Malek Ben Arbia riescono ad attirare le attenzioni di Kevin Codfert, tastierista dei francesi Adagio nonché noto produttore. Pezzo dopo pezzo il puzzle, piano piano, prende forma e, grazie all’aiuto di Codfert, all’ingresso in formazione del bassista Anis Jouini e alla laurea ottenuta da Malek Ben Arbia presso la prestigiosa Music Academy International a Nancy in Francia, i Myrath diventano realtà.

Nel settembre 2006, infatti, gli Xtazy decidono di cambiare nome in Myrath, parola che significa eredità, retaggio. La formazione risulta completamente rinnovata ed è ora composta dal mastermind Malek Ben Arbia – chitarra, Elyes Bouchoucha – tastiere e voce, Anis Jouini – basso, Saif Ouhibi – batteria. A dicembre dello stesso anno i tunisini entrano in studio presso gli Ettawfik Studis in Tunisia e, sotto l’egida guida di Codfert, registrano il disco di debutto intitolato Hope, che verrà pubblicato nel 2007 dall’etichetta francese Brennus Music.

 

Hope

Hope è la naturale evoluzione dell’eredità lasciata dagli Xtazy, un progressive metal in cui i Symphony X sono qualcosa di più di una semplice ombra. È facile trovare anche influenze Dream Theater, in particolare nelle parti strumentali. Il disco, per essere il debutto di una formazione composta da ragazzi poco più che ventenni, è ben strutturato, convincente e presenta una produzione curata, come se la band avesse già le idee chiare non solo sulle composizioni ma anche sulla scelta dei suoni. Il songwriting, sebbene ancora troppo derivativo e debitore (in particolare) ai due nomi citati poco sopra, mette in luce un gruppo dotato di un margine di miglioramento elevatissimo. La sezione ritmica, curata da Saif Ouhibi alla batteria e Anis Jouini al basso, risulta dirompente. La chitarra di Malek Ben Arbia si esibisce in un guitarwork curato, caratterizzato da un riffing preciso e tagliente, belle armonizzazioni e una solistica dotata di un’ottima tecnica e melodia, scandita da una già invidiabile pulizia di esecuzione; molto ben riuscito il continuo gioco tra chitarra e le tastiere di Elyes Bouchoucha, convincente anche nella prova al microfono, in cui è facilmente riscontrabile l’importanza di un certo Russel Allen, sia nell’interpretazione che nelle linee vocali.

Sebbene qualche soluzione compositiva possa riportare alla mente la musica di tradizione araba, siamo ancora distanti anni luce dal personalissimo oriental metal che permise ai Myrath di conquistare un posto di rilievo nella scena internazionale. Hope rappresenta quindi un sogno divenuto realtà, un sogno nato anni addietro nella mente di cinque ragazzi tredicenni, un disco realizzato inseguendo il mito delle band che avevano contraddistinto gli ascolti dell’act di Ez Zahra. Un primo passo riuscito, che dovrà però fungere da fondamenta per il futuro, un futuro in cui la formazione tunisina dovrà sviluppare la propria personalità, dare libero sfogo al proprio estro. Come vedremo, i Myrath, non impiegheranno molto tempo a diventare se stessi, realizzando questa evoluzione.

Il richiamo del deserto

 

Desert Call

Crescere non significa solo invecchiare anagraficamente. Significa comprendere sè stessi, trovare, conquistare la propria personalità, imparare a muoversi brillando di luce propria, non essere una semplice ombra di chi ci ha preceduto. Questo concetto dev’essere stato pensato, metabolizzato e successivamente messo in atto dai Myrath nel secondo full length intitolato Desert Call, disco pubblicato nel 2010 dall’etichetta francese XIII Bis Records. L’album rappresenta un punto focale nella carriera della band tunisina ed è quindi corretto andare per gradi nello spiegarne la genesi.

Facciamo un piccolo passo indietro e dal 2010 torniamo al 2007. Hope è stato pubblicato, i Myrath diventano la prima metal band tunisina a ottenere un contratto discografico, ma non sono gli unici a tentare il grande salto. In quel periodo la Tunisia può vantare un discreto numero di compagini dedite alla musica a noi cara ed è proprio da una di esse che la formazione capitanata da Malek Ben Arbia pesca un musicista che permetterà di fare il vero e proprio salto di qualità al sound dei Myrath. Stiamo parlando di Zaher Zorgati, notevole singer attivo, nell’ordine, con gli Introspection e Pirania, band con cui registrò un lavoro autoprodotto intitolato Between Dream and Nightmare. Zorgati darà un apporto fondamentale all’evoluzione della formazione di Ez Zahra. Quanto solamente accennato con i suoi Pirania troverà definizione e realizzazione nei Myrath, grazie a dei nuovi compagni di avventura estremamente dotati dal punto di vista tecnico-compositivo e, soprattutto, a una comune concezione musicale. Da questa alchimia creatasi all’interno della band, ogni musicista riuscirà a progredire, a crescere nel proprio percorso artistico. Il risultato è Desert Call, disco che, come espresso dal titolo, risente del richiamo del deserto, figlio diretto di quell’eredità, quel retaggio che arriva da un lontano passato, espresso nel nome della band.

La lineup di “Desert Call”

Il secondo capitolo dei Myrath è una netta evoluzione rispetto al predecessore. Dal punto di vista strumentale la componente prog è sempre marcata, anche se stavolta il quintetto spinge verso un power-prog che trae ispirazione dagli Adagio (influenza di Codfert?). A fare la differenza, però, è la componente araba, legata alla tradizione di scuola magrebina, che in Desert Call inizia a diventare parte integrante delle composizioni. Sono in particolare le tastiere di Bouchoucha, con le scale modali tipiche della musica araba, ad arricchire la componente metal espressa dal riffing di chitarra e dalla sezione ritmica. E dal punto di vista vocale? Beh, Zorgati rappresenta il reale salto di qualità. Dotato di una tecnica invidiabile, il singer tunisino è autore di una prestazione personalissima e di prim’ordine. Le sue linee vocali risultano vincenti, piene di melodie che entrano in testa già al primo ascolto, in particolare per l’inserimento del tarab, l’arte di modulare la voce propria della musica araba, atta a incantare l’ascoltatore. Il tutto in un contesto occidentale caratterizzato dall’utilizzo dell’inglese nei testi.

Certo, il processo di maturazione è in fase di sviluppo, il songwrinting, in alcuni passaggi, continua a risultare prolisso, il minutaggio delle singole tracce elevato e il mix sonoro che mira a unire le due culture che si affacciano sul Mediterraneo è ancora acerbo, con l’ago della bilancia che tende ancora a pendere verso la voglia di Occidente. Il percorso di definizione, della realizzazione di se stessi, è però stato definitivamente intrapreso.

Dal richiamo del deserto alle sue storie

 

Tales of the Sands

Passa un solo anno e, nel 2011, i Myrath pubblicano un disco in grado di portare una vera e propria ventata di freschezza in un genere che, ormai da qualche tempo, sembrava destinato all’autocitazione. Stiamo parlando di Tales of the Sands, album attraverso il quale la band tunisina riesce a unire l’Occidente con l’Oriente come nessuno aveva mai fatto prima. Le coordinate possono sempre essere indirizzate verso un prog-power ma, con questo lavoro, i Myrath diventano a tutti gli effetti uno dei nomi di spicco della scena oriental metal, forse, almeno per chi sta scrivendo queste righe, i massimi esponenti del genere. Come se avessero compreso a pieno se stessi, le proprie origini, l’eredità culturale millenaria che una terra come la Tunisia può vantare, i Nostri avvertono la responsabilità di rappresentare una nazione, esportandone quindi gli aspetti caratteristici. Forse, è proprio con Tales of the Sands che la band comprende il significato di eredità, retaggio espresso nel proprio nome.

In questa terza fatica la musica araba diventa colonna portante del processo di composizione. Non è più un qualcosa che punta ad abbellire, a dare degli accenti diversi. Ora, a tutti gli effetti, rappresenta le fondamenta e le linee guida attorno cui erigere la struttura canzone. È con questo capitolo che i Myrath raggiungono la definitiva maturazione. Il minutaggio delle singole tracce si abbassa, eliminando quella prolissità che affiorava in molti passaggi dei due dischi precedenti. Non c’è più la smania di mettere in atto passaggi strumentali dall’elevata complessità esecutiva, la tecnica del singolo viene messa a disposizione della canzone stessa, dando priorità alla melodia. Proprio in questa direzione le tastiere di Bouchoucha ricoprono un ruolo importantissimo in ogni song, sia nei frangenti più power-prog oriented (vedasi Time to Grow) sia nella riproposizione delle scale modali che caratterizzano la musica araba. A fare nuovamente la differenza è però il singer Zaher Zorgati, autore di una prestazione incredibile, carica di passione e pathos, teatrale e tecnica allo stesso tempo. Aumenta l’utilizzo del tarab nelle proprie linee vocali e introduce l’arabo nei testi, che va a mescolarsi con l’inglese. Ma è tutta la band a girare alla perfezione e il songwriting risulta ispiratissimo, facendo suonare il disco personale e spontaneo.

 

In Tales of the Sands incontriamo inoltre un cambio di lineup. Il batterista Saif Ouhibi lascia la band per motivi personali (lo ritroveremo poi attivo negli interessantissimi Nawather) e il suo posto viene occupato da Pierre-Emmanuel Desfray, già attivo con i francesi Heavenly. L’ingresso di Desfray in formazione trasforma i Myrath in una compagine franco-tunisina e, con il senno di poi, se provassimo a leggere tra le righe, tale decisione potrebbe venire intesa come un ulteriore rafforzamento di quanto fin qui detto, un’ ulteriore realizzazione del desiderio di unire Occidente e Oriente.

La lineup di “Tales of the Sands”

È un momento importantissimo per il quintetto originario di Ez-Zahra, che sul finire d’anno si imbarcherà in una tournèe europea come support act degli Orphaned Land: le due più importanti formazioni del movimento oriental metal assieme, in un percorso itinerante denominato per l’occasione Oriental Metal Tour. In questa avventura i Myrath non verranno accompagnati da Desfray ma dal session Morgan Berthet. Il talentuoso batterista di Lione è uno dei nomi che ruotano attorno all’universo Adagio, band in cui suona le tastiere il produttore Kevin Codfert, a tutti gli effetti una sorta di padre adottivo della compagine tunisina. A seguito di questa esperienza Berthet verrà ufficializzato come nuovo drummer della band. Risulta inoltre evidente come la Francia diventi sempre più importante per i Myrath: casa discografica, produttore, batterista, accademie musicali presso cui si sono laureati Ben Arbia e Bouchoucha. A tutti gli effetti la nazione europea diventa la seconda casa del quintetto, il trampolino di lancio per tentare il grande salto. Proprio in Francia, all’inizio del 2012, la formazione tunisina avrà l’onore di accompagnare Tarja nelle quattro date in territorio transalpino. Nella tappa di Lione, poi, vi sarà un’ulteriore soddisfazione: Zaher Zorgati verrà invitato da Tarja a duettare in Phantom of the Opera, cose che non accadono tutti i giorni e non a tutti i musicisti, sottolineando, quindi, il valore del singer tunisino e la crescente attenzione che i Myrath riescono a catalizzare attorno al proprio operato.

L’attuale lineup dei Myrath

La band sfrutta il momento positivo e intraprende un’intensa attività live che la porterà a calcare i palchi americani, europei e nord africani, partecipando a importanti festival quali il ProgPower USA, il ProgPower Europe, il festival rumeno I Am The Rocker, in cui i Myrath realizzano il sogno di poter conoscere e condividere lo stage con i Dream Theater. Non mancheranno altre importanti date di supporto a formazioni del calibro di W.A.S.P. e HIM. In questi quattro lunghi anni, la formazione franco-tunisina sembra non avere fretta nell’iniziare l’opera di composizione del successore di Tales of the Sands e, dall’esterno, tale decisione può esser interpretata come se la band avesse compreso l’importanza e il valore del disco realizzato, il fatto di dover comporre un album che ne possa reggere il confronto senza però cadere nell’errore di copiare quanto già realizzato. Tra i fan, però, l’attesa inizia a diventare estenuante e, finalmente, sul finire del 2015 arriva l’annuncio della band che ufficializza la pubblicazione del nuovo album Legacy nella prima metà del 2016. Una sorta di disco omonimo visto che “legacy” è la traduzione inglese di “myrath”.

Legacy

La storia ora è recente e probabilmente nota, ma proviamo ugualmente a narrarla e, se possibile, ad approfondire il quarto episodio della saga Myrath. Per l’occasione, la band sigla un nuovo deal con l’etichetta francese Verycords e, quasi in concomitanza con la pubblicazione di Legacy, parte nuovamente in un tour europeo, questa volta come support act dei miti di gioventù: i Symphony X. Proprio in una di queste date, TrueMetal non si è fatto scappare la possibilità di fare due chiacchiere con Zaher Zorgati, realizzando l’intervista che potete trovare cliccando qui. Zaher ci racconta il perché di un’attesa durata ben cinque anni per poter avere un nuovo album. Ci spiega come abbia influito la rivoluzione avvenuta in Tunisia nel 2011 e 2012, quanto abbia inciso la scomparsa del padre di Malek Ben Arbia, definito il vero motore della band. Tramite le sue parole, inoltre, riusciamo a entrare nel dimensione Myrath, comprendere quanto siano importanti le origini, la tradizione, la cultura del paese natio nella concezione musicale della formazione tunisina. Senza considerare la passione che lega il quintetto alla musica, intensa come forma d’arte ed espressiva, che traspare in ogni risposta data dal talentuoso singer. Ci troviamo al cospetto di ragazzi umilissimi che, dopo aver faticato nel tentativo di poter vivere un sogno, cercano di godersi ogni istante, ogni sensazione che il percorso artistico intrapreso riesce a donare loro.

Dal punto vista musicale, come già approfondito in sede di recensione, Legacy si dimostra degno successore di Tales of the Sands, rappresentandone la naturale evoluzione. Va però detto che, rispetto al precedente capitolo, risulta meno spontaneo, puntando maggiormente su melodie mai banali, curate ed eleganti, ma che risultano un po’ troppo studiate, come se vi fosse il tentativo di provare ad ampliare la platea a cui rivolgersi, perdendo quell’istintività propria dei lavori capaci di lasciare un segno del proprio passaggio anche a distanza di anni. La proposta è sempre legata a un perfetto mix, sapientemente bilanciato, di progressive metal e musica araba, dove, in questo quarto capitolo, fanno capolino elementi rockeggianti, rendendo Legacy di facile assimilazione già dal primo ascolto, facendosi poi scoprire un po’ alla volta.

 

Arriviamo così ai giorni nostri, giorni in cui i Myrath stanno definendo e confermando le partecipazioni ai festival estivi, segno che la saga della band originaria di Ez-Zahra è ben lungi dall’essere conclusa e, anzi, sembra destinata a regalare altri interessanti capitoli. Per ultimare quest’articolo citiamo la conclusione della recensione di Legacy presente nel nostro database:

Myrath sono a tutti gli effetti una realtà del presente, uno di quei nomi che comporranno e segneranno il futuro della musica a noi cara. Se vogliamo che nella scena metal possa prender piede un ricambio generazionale, che ci possa essere un futuro dopo i “dinosauri”, dopo i nomi che hanno scritto la storia del genere, dipende soprattutto da noi ascoltatori, dalla nostra voglia di valorizzare quei gruppi che hanno la capacità di dire qualcosa di personale, quei gruppi capaci di portare la ventata di freschezza nominata in precedenza. Ecco, i Myrath rappresentano questo. Ora, il passo successivo, spetta a voi.

Sì, perché grazie ai Myrath, almeno nel metal, il futuro arriva dal deserto.

Marco Donè