Recensione: All You Can Eat

Di Carlo Passa - 9 Aprile 2014 - 14:25
All You Can Eat
Etichetta:
Genere:
Anno: 2014
Nazione:
Scopri tutti i dettagli dell'album
80

Feel the Steel fu un debutto eccezionale, dotato di una qualità e freschezza compositiva che all’hair metal mancava da tanto tempo. Quel disco mostrò le potenzialità degli Steel Panther, musicisti professionali e furbi quel che basta per sapersi ritagliare un proprio ruolo in un ambito che pareva relegato ai soli libri di storia.
Il successivo Balls Out vide l’abbandono di ogni tema che non fosse quello sessuale spinto, togliendo la cittadinanza a quei testi sulla preminenza del metal che ancora apparivano in Feel the Steel: si veda, ad esempio, l’inno Death to All (but Metal). L’ironia no: quella restava, nell’immagine, negli arrangiamenti, oltre che nei testi (chi non ricorda l’incredibile Just Like Tiger Woods). E la band non smetteva di ribadirlo nelle proprie esibizioni live, veri e propri spettacoli miscellanei di musica, battute, sesso, belle ragazze e vestiti sgargianti.
Insomma, un’orgia di sensazioni per ogni hair metaller che si rispetti.
E ora è il tempo di All You Can Eat. Com’è All You Can Eat? Potrei scrivere che è esattamente il disco che vi aspettate dagli Steel Panther, in poco tempo capaci di definire se stessi e rendersi riconoscibili grazie a una personalità marcata e, dunque, distintiva. Niente di nuovo, quindi? No: e questo potrebbe rivelarsi un piccolo guaio per la carriera gloriosa della band americana. Lo dico non per amore dell’evoluzione fine a se stessa e, in vero, neppure mi riferisco alla musica quanto all’approccio di fondo che muove la band. Sottile, infatti, è il confine tra l’ironia e la parodia: se Feel the Steel e Balls Out erano stati eccezionali nel cavalcare questo confine e a valorizzarne le potenzialità, All You Can Eat risulta più stanco e rischia lo scivolamento nell’orrido della parodia. In una parola, sembra che gli Steel Panther ci stiano prendendo in giro, dove il pronome “ci” si riferisce a tutti noi che siamo cresciuti con i Mötley, i Poison e i Faster Pussycat, e abbiamo sognato il Sunset Strip. Non siamo così stupidi da pensare che Vince Neil e Bret Michaels non fossero dei furboni coscienti d’aver trovato la gallina dalle uova d’oro, ma All You Can Eat pare eccedere nel sottolineare la dimensione apparente e sostanzialmente falsa del genere.
Non mi si fraintenda: il disco è strepitoso, divertentissimo, suonato meravigliosamente, prodotto alla grande e dotato di un songwriting che è forse il migliore che si possa trovare sul mercato hair metal odierno. Dal vivo, i pezzi spaccheranno e io per primo non lesinerò headbanging furioso stropicciandomi il mascara e il rossetto rosso fuoco. Eppure, qualcosa stride: l’eccesso stucca e, alla lunga, denota una certa carenza di idee. L’ironia è una lama sottile che bisogna saper gestire con sapienza, perché la farsa è dietro l’angolo. Il fan dell’hair metal conosce il politicamente scorretto e sa che è parte del suo amato genere: ma est modus in rebus. Le donne dell’hair metal sono sì oggetti sessuali, ma sono anche compagne che fanno battere il cuore a questi cattivi rocker, che così cattivi non sono. Come sapete, le power ballad furono tra i  tratti caratterizzanti il genere negli anni ottanta: e nelle power ballad, le donne si trasformavano da bei pezzi di carne poco coperta ad amori ricordati, sognati o semplicemente contemplati. Ebbene, le power ballad degli Steel Panther sembrano delle parodie di se stesse e la band si trasforma in una versione volgare degli Elio e le Storie Tese. Le power ballad non devono far ridere: le power ballad devono far sognare, ritagliando un angolo di sentimento in quel mare di lustrini e peccato che è l’hair metal. Senza di esse, il genere soffrirebbe di una monotonia schiacciante. Talk Dirty To Me acquista senso perché pochi solchi dopo arriva I Won’t Forget You. Girls, Girls, Girls è eccezionale perché You’re All I Need. Big Guns è credibile perché in I Remember You Sebastian Bach canta “I’d live for your smile and die for your kiss”.
Le power ballad degli Steel Panther sono sì musicalmente perfette nel richiamare le atmosfere degli anni ottanta, ma stupisco come una band tanto dotata possa cadere nel marchiano errore di cassare da esse quella componente sentimentale che ne è parte integrante. E su All You Can Eat la band esagera in tal senso.
Bukkake Tears parla dello sperma che cala sul volto della protagonista di una gangbang (“there is so much love on your face”), lasciando all’ascoltatore il gusto dolceamaro del dubbio tra il considerare il testo ironicamente mal posto o tristemente realista. Bukkake Tears, tuttavia, riesce nel difficile compito di rappresentare in poche righe le contraddizioni che fecero prima esplodere e poi implodere l’hair metal nella seconda parte degli anni ottanta: sotto la massa gelatinosa di “amore”, infatti, si nascondono le lacrime della protagonista della gangbang, invisibili all’io parlante e ai suoi compagni di bisbocce (“I couldn’t see the tears”). Qui sta tutta la decadenza fisiologica del genere, che nasconde una povera realtà dietro l’orgasmo di luci e make-up: e non ho potuto non ricordare l’immagine di Chris Holmes, chitarrista dei W.A.S.P., che, ubriaco nella sua piscina da rockstar, biascica un discorso incerto sotto lo sguardo lacrimevole della madre nel bellissimo documentario The Decline of Western Civilization Part II: The Metal Years di Penelope Spheeris (1988). Musicalmente il pezzo è splendido e, sinceramente, vorrei che il mio inglese fosse pessimo, per potermi immaginare che gli Steel Panther mi parlassero di battiti del cuore invece che di orgasmi multipli.
Nello stesso modo, You’re Beautiful When You Don’t Talk ha un sogwriting da urlo, ma perché rovinarla con un testo che s’incaponisce a riproporre la solita storia della ragazza bella e stupida? Lo ripeto. Le power ballad non devono far ridere: devono far accendere gli accendini, baciare i fidanzati e sognare gli innamorati non corrisposti. Anche questo furono gli anni ottanta: don’t stop believin’!
Lo so, gli Steel Panther non suonano puro hair metal, bensì un suo sottogenere che potrei definire pussy metal. Alla luce di questo, tutto tornerebbe: i temi sarebbero appropriati e il contesto acquisirebbe credibilità. Ma quanto è ampio lo spazio concesso all’ironia nel mondo del metal? e quanto delicato è l’equilibrio tra essa e il ridicolo? Ecco, gli Steel Panther ballano pericolosamente sulla linea sottile che separa questi due estremi, a tratti annaspando nel mare di piacere che essi stesso hanno costruito.
E parliamo della musica che, come ho già detto, è eccellente. Pussywhipped è una opener perfetta, forte di un bell’arpeggio iniziale che sfocia in un pezzo dal grande impatto. La già nota Party Like Tomorrow is the End of the World richiama le party song dei Poison: la canzone è uno sballo e il video che la supporta ne vale, da solo, l’ascolto ripetuto. Anche la successiva Gloryhole era già conosciuta dai fan, essendo una presenza costante nei concerti del tour della band, tuttora in atto: ancora una volta sono i Poison a far capolino, soprattutto nella strofa.
La summenzionata Bukkake Tears è una power ballad orchestrata alla grande e impreziosita da soluzioni melodiche e arrangiamenti che dimostrano come si possa suonare retro senza dover per forza ripetere modelli abusati.
Gangbang at the Old Folks Home ha un ritornello che i Dokken non riescono a scrivere da più di due decenni, mentre Ten Strikes You’re Out suona un po’ più stanca, nonostante resti di livello piuttosto alto.
L’altro singolo The Burden of Being Wonderful è un ruffiano mix del meglio dei Def Leppard di Hysteria, con una spruzzata di Journey: al limite del pop rock, il pezzo è proprio bello, perfetto in tutte le proprie componenti, testo compreso (e qui l’ironia stravince sulla farsa). Il tutto è completato da un video che merita davvero di essere visto.
Fucking My Heart in the Ass e B.V.S. sono sapientemente aggressive e denotano la notevole personalità della band, risultando così tanto Steel Panther: un pregio non da poco per una band che suoni hair metal nel 2014.
You’re Beautiful When You Don’t Talk è un mid-tempo con i crismi della pseudo-ballad, mentre If I Was the King è un blues malato che sfocia in un ritornello tra i più belli del lotto. Infine, She’s on the Rag cela sotto la propria apparente semplicità un buonissimo lavoro di songwriting e, si sa, non è facile scrivere canzoni facili senza scadere nel banale.
La band è professionale, scaltra e tecnicamente sopra la media. Michael Starr è un poliedrico istrione da palco à la David Lee Roth, capace di sfoderare sempre la voce giusta al momento giusto. Satchel è un fenomeno, abilissimo a ricalcare gli stilemi del tempo che fu senza cadere nella tentazione di ostentare la propria abilità ma, anzi, mettendola a disposizione della resa del pezzo. Lexxi Foxx è una presenza tanto discreta (ma mai inefficace) su disco quanto ingombrantemente glam sulle assi del palco. Stix Zadinia, infine, è bravissimo a miscelare doppie casse molto metal, tocchi semplici e charleston aperti tipici del genere, il tutto con un dinamismo che fornisce veramente un valore aggiunto alla riuscita delle canzoni.
All You Can Eat ha tutte le caratteristiche per farvi divertire, che è il suo vero scopo, senza per questo sparire velocemente dalle vostre playlist. Merita, dunque, un voto alto, che si sarebbe ulteriormente elevato se gli Steel Panther non avessero abusato del proprio pussy metal, ricordando che anche un Rocco Siffredi ha il suo bel periodo refrattario.
 

Discutine sulla pagina del forum dedicata all’hard rock.

Ultimi album di Steel Panther

Genere: Hard Rock  Heavy  Vario 
Anno: 2023
80
Genere: Hard Rock 
Anno: 2017
72
Genere:
Anno: 2014
80
Genere:
Anno: 2011
72