Recensione: Forever Warriors, Forever United

Di Marco Tripodi - 23 Agosto 2018 - 8:00
Forever Warriors, Forever United
Band: Doro
Etichetta:
Genere: Heavy 
Anno: 2018
Nazione:
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70

Gli anni ’90 non sono stati facili per nessuno, tramontati gli Warlock con un vero e proprio canto del cigno (“Triumph And Agony“, il loro capolavoro indiscusso) e pubblicato un album – “Force Majeure” – che nella sostanza era la diretta continuazione di quel percorso (con tanto di Tommy Henriksen in formazione), Dorothee Pesch affronta un decennio complicato, continuando a sfornare dischi ora affidandosi a producer scafatissimi (Gene Simmons per l’omonimo “Doro“), ora facendo leva su emozioni più intimiste (“True At Heart“, “Angels Never Die“), ora cercando di esplorare sonorità più in voga al momento (“Machine II Machine“, “Love Me In Black“), questo senza mai snaturarsi ma solo mossa da curiosità verso sfumature diverse che potessero in qualche maniera arricchire la tavolozza pittorica e permetterle di sopravvivere ad un periodo musicale letteralmente ostile per le vecchie glorie del metal ortodosso. Il nuovo millennio resetta tutto anche in casa Pesch perché con “Calling The Wild” pare che la quarantena sia finita e si possa tornare a fare heavy metal senza doversi vergognare. Quell’album è quanto di più vicino ai tempi degli Warlock dalla fine degli anni ’80 in poi. Il riscontro è caloroso e Doro si convince che la formula sia quella giusta. Seguono altri quattro titoli (intendendo studio album e non compilation, collection, live, dvd, greatest hits, singoli e frattaglie varie, una produzione industriale che vede Doro seconda solo ai Manowar) sostanzialmente sulla stessa falsariga; non dico dischi fotocopia ma capitoli discografici estremamente affini, coerenti, omogenei tra loro, perfettamente rispondenti al (nuovo) canone stabilito da “Calling The Wild“.

Forever Warriors, Forever United” prosegue l’evoluzione (o sarebbe meglio dire la stasi). Ennesimo lavoro di metallo con le T maiuscole: Tradizionale, Tetragono, True. 35 anni di carriera, centinaia di canzoni in repertorio, un’attività live che non conosce soste o rallentamenti e che anzi rappresenta il punto forte di Doro. Non era scritto da nessuna parte che come 16° album (vale sempre il ragionamento di prima, considerate solo quelli in studio, inclusi i 4 Warlock) un’artista 54enne decidesse di imbarcarsi addirittura in un doppio, esperimento mai verificatosi prima in carriera. Doro invece intende esprimere il suo invidiabile stato di forma (che magari non sarà esattamente quello ritratto nelle copertine dei suoi dischi, che la vedono ringiovanita sempre più, in una curva indirettamente proporzionale rispetto alla realtà), tale da sfidare anche la scommessa di un disco doppio, contenente 25 canzoni per circa 100 minuti di musica. “All killer no filler” ha detto Doro, “una varietà ed uno spettro stilistico incredibili” ha rincarato la Nuclear Blast.. è effettivamente così? Non proprio, a mio parere.

Una varietà ed uno spettro stilistico incredibiliDoro non li ha mai avuti, né prima né oggi, il suo è un metallo che scalda il cuore e invita ad imprese epiche e cameratesche, ma quello è, metallo equamente suddiviso tra anthem, ballad e cover, lo spettro finisce lì. Riguardo ai “filler”, forse non si può parlare di filler veri e propri – nel senso più deteriore del termine – ma certamente i due album hanno una manciata di pezzi che nulla aggiungono alla resa complessiva, e che nemmeno nulla avrebbero tolto se fossero stati espunti dall’elenco finale. “Backstage To Heaven“, “It Cuts So Deep“, “Fight Through The Fire“, ad esempio, non rimarranno nella storia come dei grandi classici di Doro. C’è poi tutto il comparto del citazionismo e dell’autocitazionismo ostinato; “1000 Years” assomiglia abbastanza a “Tausend Mal Gelebt” (da “Love Me In Black“), con quel suo ripetere ossessivamente “Thousand” (che nell’inglese crautizzato di Doro diventa praticamente “Tausend“); “Blood, Sweat And Rock ‘n’ Roll” ha il ritornello identico a “Dead, Jail Or Rock ‘n’ Roll” di Michael Monroe (di cui sembra la versione politicamente corretta); “Turn It Up” e “Lift Me Up” vanno ad aggiungersi a “Burn It Up” di “Calling The Wild” (e tra le due è assai meglio “Lift Me Up“). L’Universo di Doro è fatto di deja-vu, concetti semplici che ritornano ad oltranza; titoli come “All For Metal“, Soldier Of Metal“, “Metal Is My Alcohol” rispondono al vostro dubbio esistenziale su quale possa essere il genere di riferimento di quella seducente ragazza bionda vestita di pelle che appare in copertina. Non manca la consueta canzone in tedesco (“Freunde Fürs Leben“), come tradizione impone, o il riferimento a Lemmy Kilmister, con il quale Doro aveva già inciso un paio di canzoni (“Love Me Forever“, “It Still Hurts“) e che stavolta, per cause di forza maggiore, si traduce in un omaggio commemorativo molto sentito da Doro (“Living Life To The Fullest“).

Per ogni album, perlomeno dal 2000 in poi, la valchiria di Düsseldorf ha dichiarato nelle interviste che un qualche brano intendeva rievocare le atmosfere di “All We Are“, inno sempiterno del metal e canzone simbolo degli Warlock, che Doro ha testardamente sempre cercato di replicare. Anche stavolta è così, abbiamo “All For Metal“, che si rivela un anthem più che discreto e che quantomeno si avvicina alle vibrazioni che furono della canzone manifesto di “Triumph And Agony“. “Bastardos” – intelligentemente messa come secondo pezzo di “Forever Warriors“, a seguire “All For Metal” – è tra i momenti più felici della tracklist, song lineare e diretta, ma anche potente ed efficace. “If I Can’t Have You” vede Doro duettare con Joahn Hegg degli Amon Amarth (tra gli special guest dell’occasione, assieme anche a Doug Aldrich e all’ex Tommy Bolan). A mio gusto il growling di Hegg non fa che “guastare” una canzone che già di per sé non fa gridare al miracolo, ma evidentemente a Doro questa alternanza bella/bestia deve essere sembrata convincente. “Love’s Gone To Hell” ha un ritornello che acchiappa, anche se si tratta della ennesima variazione sul tipo delle varie “Give Me A Reason“, “Heaven I See“, It Kills Me“, “It Still Hurts” estratte della discografia passata di Frau Pesch. Bella “Resistance“, che apre “Forever United” all’insegna, per l’appunto, dell’unità e della fratellanza con i cugini metalhead transalpini. Fa piacere anche ritrovare vaghe reminiscenze del periodo “Machine II Machine“/”Love Me In Black” (affatto da disprezzare) in un paio di episodi come “Heartbroken” e “Love Is A Sin“. “Don’t Break My Heart Again” e “Lost In The Ozon” sono le versioni dei rispettivi classici di Whitesnake e Motorhead, così come la scaletta prevede pure “Caruso” di Lucio Dalla, bonus track che assieme ad altre cinque non ho avuto l’opportunità di ascoltare poiché non comprese nelle copie promozionali degli album.

Tirando un bilancio, a “Forever Warriors, Forever United” non mancano bei pezzi, classicamente Doro Pesch, solidamente metal e ben congegnati soprattutto a livello di chorus (che poi è l’80% di una canzone di Doro). A mio parere se anziché pubblicare un doppio si fosse optato per un solo album, scegliendo e selezionando la crema della crema, si sarebbe ottenuto un platter decisamente di livello, effetto che invece viene inevitabilmente annacquato da una scaletta di 25 momenti non tutti riuscitissimi, o perlomeno non tutti equivalenti. “Forever Warriors, Forever United” è il tipico disco che ci si aspetta dalla cantante tedesca, nel bene e nel male; e del resto col nuovo millennio Doro si è irremovibilmente attestata su binari di celebrazione del metal e un po’ anche di se stessa, offrendo al proprio pubblico una formula mai troppo sorprendente ma mediamente di qualità apprezzabile, sempre e comunque rassicurante in termini di sonorità ed aderenza alla liturgia del denim ‘n’ leather (in compagnia di altri decani della scena come Running Wild, Sinner, Anvil, Saxon, etc).

Marco Tripodi

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