Recensione: Fortitude

Di Stefano Burini - 3 Marzo 2015 - 13:36
Fortitude
Etichetta:
Genere: Metalcore 
Anno: 2015
Nazione:
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50

«Metalcore = merda».

Quante volte vi sarà capitato di leggere questa frase su praticamente ogni forum o portale che si occupi di heavy metal music? INNUMEREVOLI.

Ma perché tanto odio nei confronti di un sottogenere praticamente da subito etichettato come una moda passeggera e, contro ogni pronostico, giunto in realtà più o meno al quindicesimo anno di vita?

Le ragioni sono indubbiamente molte. Dal look decisamente poco TRVE di molte band fino al lento evolversi (o degenerare, se preferite) del loro sound verso lidi sempre più lontani dallo spirito tipico dell’hardcore punk e del metal, bisogna ammettere che molti corer non si siano poi dannati l’anima per accattivarsi le simpatie del pubblico più tradizionalista. 

Un vero peccato, a ben pensarci, perché a fronte di un elevato numero di realtà inutili (ma quale corrente non ha le proprie miriadi di epigoni privi di talento e ragion d’essere? NdR), il metalcore ha avuto i suoi momenti e ci ha pure regalato qualche dischetto da tramandare ai posteri (a memoria: “Ascendancy” dei Trivium, “The End Of Heartache”dei Killswitch Engage e “Shadows Are Security” degli As I Lay Dying). Dischetti i cui meriti e la cui popolarità hanno tuttavia finito per essere spesso schiacciati sotto ai fischi e agli insulti.

In tutto questo i Feed Her To The Sharks (letteralmente: «Dalla in pasto agli squali») dove si collocano? 

Nel limbo, un limbo fatto di mediocrità e di grigiore, certamente lontano dall’improbabile indie/emo/pseudo core degli Zoax (tanto per fare un nome ben poco stimato), ma altrettanto lontano dalle vette dei gruppi di punta del genere. Ritornelli mielosi a parte (che vorrebbero strizzare l’occhio ai Killswitch Engage era-Jones, pur senza averne la profondità melodica ed emotiva), il sound degli australiani non è nemmeno così morbido o svenduto, anzi. È semplicemente piatto.

A partire dal riffing monocorde ad opera di Kim Choo e Marinos Katsanevas, passando per il cantato di Andrew Vanderzalm – il quale alterna uno scream non troppo personale ad un inflazionatissimo registro clean privo di qualsiasi spunto vagamente interessante – fino all’abuso del breakdown, si gira sostanzialmente in tondo senza cavare un ragno dal buco per tutti gli oltre quaranta minuti di ascolto. Le canzoni sono praticamente tutte uguali e, come tali, pressoché intercambiabili. Nessuna variazione, nessun cambio di ritmo o di atmosfera e nessun lampo; solo tanta banalità, un po’ di artefatta cattiveria e le ormai immancabili spruzzate di elettronica, probabilmente messe lì nel tentativo (fallito) di dare al tutto un tocco più trendy e al passo coi tempi.

Non un disco orribile (c’è obiettivamente di peggio in giro), quanto piuttosto un disco inutile. Un peccato forse ancora più grande in un’epoca segnata da una produzione musicale quantitativamente (ma ahinoi non qualitativamente, NdR) mai così massiccia. 

Stefano Burini
 


 

 

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