Recensione: Seven Years of Famine

Di Alessandro Calvi - 24 Marzo 2014 - 9:30
Seven Years of Famine
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Anno: 2014
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65

Gli Order of Isaz nascono nel 2009 e subito registrano un primo EP che cattura l’attenzione degli addetti ai lavori, non fosse che per la presenza in gruppo del bassista dei Tiamat Johnny Hagel. Dopo quell’inizio col botto, però, silenzio assoluto per anni e anni. Anni in cui la band non si è sciolta, né è rimasta con le mani in mano. Al contrario, per tutto questo tempo ha lavorato, tra improvvisi cambi di line-up, perdita di materiale già pronto e registrato e altre disavventure varie, a questo disco d’esordio. Infine, quando ha visto la luce, non poteva che assumere l’emblematico titolo di “Seven Years of Famine”, a rappresentare tutte le difficoltà incontrate per riuscire a portarlo a termine.

Ma concentriamoci sul risultato di questi sette anni di sfortune (vista la data ci sarebbe quasi da credere che qualcuno abbia rotto uno specchio) e ascoltiamo cosa son stati capaci di sfornare gli svedesi.
Innanzitutto bisogna dire che il contributo di Hagel, di cui gli Order of Isaz son un po’ figli, si sente e tanto. “The Coalesce”, che apre l’album, è un pezzo gothic vecchia maniera, con pure qualche strizzatina d’occhio al doom. Niente voce femminile, niente tastiere, niente quella specie di pop-goth che ultimamente va per la maggiore e, spesso, viene spacciata per metal.
I fan del gothic della prima ora saran felicissimi di questa uscita, anche perché si sente che il gruppo ha fatto i “compiti a casa” e si è studiato bene i gruppi che han dato i natali al genere. Qui e là si odono echi dei My Dying Bride, dei Paradise Lost degli inizi (merito anche del cantante dei Necrophobic Tobias Sidegård che in alcuni passaggi sembra proprio voler fare il verso a …, ma molto bravo nel cambiare registro, tanto da risultare a suo agio su tutte le canzoni del CD).
Proseguendo per le tracce, con “The Blackened Flame” e “Screeching Owl”, la musica non cambia più di tanto. Con “Dancing Shadows”, invece, cambiano i ritmi, cambiano i riff, la voce femminile non è più solo relegata ai cori, ma inizia ad avere anche un ruolo in qualche duetto. Comincia dunque ad emergere anche una velata corrente goth-rock che era rimasta inizialmente sottotraccia e destinata a proseguire anche nei pezzi successivi.
Non siamo dalle parti del goth-rock commerciale, anche in questo caso il punto di riferimento son gruppi che han fatto la storia, come Sisters of Mercy o Fields of Nephilim, quindi i gothic fan più intransigenti posso restare tranquilli. Come si diceva prima, inoltre, una delle prove più convincenti è proprio quella di Tobias Sidegård, che, nonostante il cambio di genere, risulta perfettamente a suo agio anche su queste canzoni cambiando totalmente tono di voce e registro.
Il resto della scaletta prosegue in questa alternanza tra brani gothic-doom e goth-rock, a volte riuscendo in arditi accostamenti nella stessa canzone che ci sembrano tra le cose migliori di questo CD, come ad esempio “Father Death” o la suite conclusiva “The Dying Star”.
Ultima menzione speciale per “Spirit”, cover dei Death Can Dance, che viene eseguita come andrebbe eseguita una cover. Non realizzandone, quindi, una copia sputata, ma “interpretandola” secondo lo spirito del gruppo e dell’album in cui si trova, adattandola, modificandola quel tanto che basta per renderla personale, pur senza tradire l’originale, riuscendo ancora a trasmetterne tutte le emozioni.

L’esordio degli Order of Isaz non può essere del tutto considerato come la prima uscita di una nuova band. Da una parte la lunga, lunghissima, gestazione che ha portato alla nascita di “Seven Years of Famine”, dall’altra i nomi coinvolti: musicisti con già una esperienza e una fama internazionale. Il debut album degli Order of Isaz, dunque, è un buon CD, con molte influenze e in cui sembra evidente che i membri del gruppo han riversato un po’ tutte le loro passioni per questo genere, con canzoni che si rifanno ora a un filone del gothic ora a un altro. Il risultato è apprezzabile, ben confezionato (e ci mancherebbe altro), piuttosto vario e con anche qualche elemento di originalità. Chiaramente avremmo preferito qualcosa in più, ma si tratta certamente di una valida, validissima, alternativa nel panorama gothic-metal, ormai sempre più schiacciato e appiattito verso uscite fatte con lo stampino e di sapore più pop che metal.

Alex “Engash-Krul” Calvi

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