Recensione: The Oath Of An Iron Ritual

Di Giuseppe Casafina - 30 Aprile 2016 - 12:20
The Oath Of An Iron Ritual
Band: Desaster
Etichetta:
Genere: Black 
Anno: 2016
Nazione:
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85

Nel folto e corposo universo del metal estremo, poche band hanno saputo forgiare un’identità così iconica e penetrante al pari dei Desaster.

Teutonici, tamarri il giusto nonché fieri amanti dell’attitudine estrema degli anni ’80, dal 1996 (dopo una tripletta di demotapes comprendente anche lo storico e ricercato demo “The Fog of Avalon”) sono intenti ad urlare al Mondo la loro personale visione di ciò che è veramente il metal estremo: nessuna artificiosità produttiva, nessun funamolismo nel songwriting, solo brutalità genuina e tante dosi letali di metallo ‘pestone’.

Chi scrive ha la band nel cuore e nel sistema sanguigno, tanto da avere lo storico “Hellfire’s Dominion” tatuato nel dna: ricordo ancora quel pomeriggio lontano di tanti, tantissimi anni fa in cui già al primo ascolto il succitato disco mi colpì al punto da mostrarmi un mondo di sonorità fino ad allora per me inesplorato al punto che, da allora, la mia ‘devozione’ nei loro confronti è divenuta pressoché totale.

Oggi i sacri predicatori del verbo del “Teutonic Steel” (omonimo pezzo contenuto nel disco sopra citato) sono tornati, e lo fanno in grande forma con un disco splendido quale è “The Oath Of An Iron Ritual”: un album compatto, duro come un macigno ed aggressivo come la fucilata di un panzer nelle parti basse.

D’altronde sarebbe davvero difficile aspettarsi/pretendere qualcosa di diverso da loro, i Desaster si son sempre proclamati, per loro stessa ammissione, figlio più o meno legittimi di quell’attitudine bestiale e selvaggia un tempo tipica di acts come Possessed, Venom, Razor e primi Slayer, elaborando però questo concetto nel pieno dell’era del black metal scandinavo ed incorporando così nel loro sound fortissime influenze di black metal puro: ecco così forgiato il celeberrimo black-thrash in stile Desaster, onnipresente sin dalla prima fatica del combo, vale a dire quell’ormai raro ed introvabile “A Touch Of Medieval Darkness” del 1996.

Da allora fino ad oggi quindi, il tipico sound delle bestie teutoniche si è reso autore di ben poche innovazioni, fattore di innata fierezza per il combo: eppure oggi, forse i Desaster provano in maniera, seppur leggera, ad incorporare qualcosa di diverso nei loro brani, seppur mantenendo un sound 100% aderente ai loro standard e lo fanno con una maggiore presenza di cambi di tempo, di variazioni, di incedere pullulanti di epicità intervallati da parti acustiche di indubbia efficacia, arricchendo così il timbro dell’acciaio teutonico con dosi di maggiore profondità.

Quest’ultimo platter non è immediatissimo alla pari dei suoi predecessori, sebbene il rischio di scapocciamenti sia elevatissimo sin dal primo ascolto di ‘Proclamation in Shadows’ che, con un riff di tale siffatta immediatezza, ci illude che “The Oath Of An Iron Ritual” sia solo l’ennesimo ottimo disco dei tedeschi….ma è solo un primo acchito. Perché il brano si evolve e, dopo il furioso incedere thrash posto nel mezzo del brano sfocia in un mid-tempo dalle melodie epicamente commoventi, che colpiscono al cuore dell’extreme metaller più genuino mentre il violentissimo assalto tutto di un pezzo di ‘End of Tyranny’ ci rispedisce per un attimo nei meandri di un brano ancorato dall’inizio alla fine su stilemi più classici.

I due brani di apertura insomma, ci anticipano le due facciate che animano il nuovo disco dei Desaster, da un lato infatti abbiamo le loro solite cavalcate thrash-black metal e da un altro dei brani aperti ad un maggiore respiro, ricolmi di grezza e folgorante epicità. Quindi, a susseguirsi, ecco comparire brani come ‘The Cleric’s Arcanum’, decisamente più classico, a fare da apripista a quello che è di gran lunga il brano più lungo e ‘sperimentale’ (occhio alle virgolette) del disco, ‘Hunting Siren’ che, con i suoi 7 minuti e passa di durata, ci trasporta in un mondo arcano e nascosto, esattamente come le doti immense di quest’ultimo capitolo dell’ensemble teutonico.

‘Damnatio ad Bestias’ e ‘Conquer & Contaminate’ invece, si proclamano ufficialmente come due nuovi classici immancabili nel repertorio live dei Nostri: il primo è un thrash spaccaossa dal piglio decisamente ‘catchy’ ed assassino, mentre il secondo, introdotto dall’ìncedere di una mitragliatrice, è un vero e proprio terremoto in musica tra blast-beat pesantissimi e mid-tempo assolutamente distruttivi.

In ‘The Denial’, introdotto da un tempo di batteria che potrebbe tranquillamente uscire dal debutto omonimo dei Saint Vitus, ricompare la vena epica dell’ensemble, evolvendo pian piano un ritmo catacombale in un vero e proprio olocausto sonoro: i riff di Infernal sono sempre al loro posto, riconoscibilissimi e sanguigni, per poi rallentare nuovamente la corsa esattamente nella stessa maniera dell’intro e chiudere definitivamente le danze del brano. Pura classe da maestri.

Avvicinandosi al finale del disco, la title-track viene introdotta da ululati chitarristi ferocissimi e riff punk-oriented, per un brano 100% Desaster che di sicuro spaccherà più di qualche spina dorsale dal vivo. La chiusura totale della nuova ‘Danza Macabra’ dei tedeschi, viene affidata a ‘ At the Eclipse of Blades’, brano introdotto da un riff che potrebbe tranquillamente essere uscito dalla mente die Judas Priest più ispirati di un tempo, cotornato da tempi massicci e decisamente vari, con al suo interno un intermezzo acustico trasudante epicità a livelli estremi, per quello che è forse il brano in assoluto più bello di tutto l’album (e la cui lunghezza supera abbondantemente i 7 minuti).

Arrivando alla fine, l’ascoltatore ne esce fuori straniato, sicuramente desideroso di ricomnicare il viaggio ancora una volta e scoprire ad ogni passaggio nuove, innumerevoli sfumature. Insomma, un capolavoro, senza esagerazione alcuna.

Il tutto contornato da una produzione non certo cristallina, ma sicuramente massiccia e definita quanto basta per potersi scatenare assieme alle sonorità vecchia scuola del platter, altro trademark di questi quattro tedeschi da sempre fieri oppositori delle iper-produzioni moderne a tutta compressione che vanno per la maggiore oggi.

Un disco che è decisamente dieci spanne sopra al precedente “The Arts of Destruction”, per quanto buono fosse quest’ultimo (e forse per certi versi un poco sottotono), in grado di farci rendere conto che forse, il metal estremo, non ha mai avuto così tanto bisogno di loro.

Let’s Bang or Be Banged!

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