Recensione: The Second Big Bang

Di Simone Volponi - 25 Giugno 2017 - 17:54
The Second Big Bang
Band: Soulspell
Etichetta:
Genere: Power 
Anno: 2017
Nazione:
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85

Seguo l’avventura della metal opera Soulspell da diversi anni, cioè da quando ne scoprii l’esistenza grazie al portentoso “The Labyrinth Of Truths” del 2010 (che vedeva, tra gli altri, la presenza di Jon Oliva e Zak Stevens insieme nella titletrack, pezzo decisamente alla Savatage), andando poi a ritroso nel 2008 per recuperare il debutto tutto brazileiro “A Legacy Of Honor”, proseguendo con il terzo capitolo “Hollow’s Gathering” del 2012 che ne confermava il valore.
A Heleno Vale, batterista e organizzatore dell’intero progetto, stavolta sono serviti ben cinque anni per regalarci il nuovo episodio, ma nel frattempo che i lavori proseguivano, i Soulspell hanno alleggerito l’attesa pubblicando attraverso il loro canale youtube sia un tributo agli Helloween (denso di ospiti) che la loro versione in portoghese dell’allora ultimo Ayreon “The Theory Of Everything”.
Ma adesso è tempo di “The Second Big Bang”, che si presenta con un cast come sempre numeroso e di sicuro il più ambizioso dell’intera saga. Ritroviamo alla voce vecchi sodali come Tim “Ripper” Owens e Blaze Bayley, insieme ai tanti punti fermi che hanno attraversato gli interi quattro capitolo tra cui Jefferson Albert, Tito Falaschi e la bravissima Daisa Munhoz (Vandroya), e nuovi ingressi internazionali da brivido come il nostro Fabio Lione, Andre Matos (ex-Angra), Timo Kotipelto (Stratovarius), il prezzemolone Ralph Scheepers (Primal Fear), lo stesso Arjen Lucassen, Oliver Hartmann (Avantasia), che si alternano nel dare vita ai vari personaggi della storia. E poi, spulciando tra i numerosi strumentisti presenti, balzano agli occhi i nomi della vecchia volpe Markus Grosskopf (Helloween), Kiko Loureiro (Megadeth, Angra) e Jani Liimatainen (ex-Sonata Arctica).
Insomma, tanta carne al fuoco e una storia come sempre dai forti connotati fantasy che fa pregustare un bel viaggio fatto di tanto power e melodie.

L’introduzione “Time To Set You Free” è un morbido tappeto sognante offerto dalle The Harp Twins, e lascia in breve il proscenio alla titletrack, prima esplosione di power ruggente ed epico con protagonisti la voce cristallina di Matos, uno sbraitante e aggressivo Carlos Ferri, Timo Kotipelto in grande spolvero, e, tra un assolo fulmineo della sei corde e uno delle tastiere, c’è subito spazio per il vocione di Bayley, per una composizione sparata a velocità sonica e che non concede un attimo di respiro. La tradizione dei Soulspell viene quindi subito ribadita, e non ci si sposta da quanto fatto nei precedenti capitoli.
Sound Of Rain” è una suite di nove minuti ben più cupa e articolata tra accelerazioni e passaggi corali ricamati da inserti di pianoforte. È un prog-power meno immediato nei contenuti melodici, con le voci che si sovrappongono e un bel break chitarra-tastiera dai toni maligni, dove aleggia la presenza eterea e spaziale di Arjen Lucassen. Composizione arcigna ma valida nei vari segmenti che la realizzano, condotta alla perfezione da un sempre grandioso Tim Ripper Owens la cui ugola foderata di metallo è sempre una garanzia. Va poi fatto un plauso sia allo squillante Victor Emeka che a Daisa Munhoz, un talento notevole la quale ben figura a braccetto con i colleghi maschili grazie a una voce potente ed espressiva (notare i vocalizzi sulla coda acustica del pezzo).
Il vocione di Blaze apre “The End You’ll Only Know At The End” e si rientra in un minutaggio normale, dove si ripresenta Kotipelto ad accompagnare Daisa Munhoz in una traccia però poco convincente, che sembra un po’ girare a vuoto reggendosi sulla prova vocale impeccabile e su una indubbia abilità strumentale. Il canovaccio power con doppia cassa riprende in tutto il suo splendore grazie a “Horus’s Eye” e a Ralph Scheepers che, insieme a Owens è un po’ il fuoriclasse del disco. Bel pezzo trascinante con acuti elargiti senza timore dal pelatone tedesco, accompagnato bene dalla brava Dani Nolden (Shadowside), maligna a sufficienza per tenere la mano a Scheepers in uno dei passaggi più riusciti dell’opera.
Troviamo delle tastiere stratificate che aprono “Father And Son”, traccia melodica dal gusto AOR, probabilmente il risultato della ricerca di un singolo appetibile come già capitava in The Labyrinth Of Thruths con “Adrift”. Accattivante quanto basta e bel duetto tra Pedro Campos e la Munhoz.
In realtà il primo estratto da The Second Big Bang, con tanto di video ufficiale, è “Dungeons And Dragon” dove spicca la prova del titanico Fabio Lione la cui voce ha sempre il pregio di essere riconoscibile tra mille. E di voce dimostra ancora una volta di averne Daisa Munhoz, mattatrice del disco in grado di arrivare a vette che sono improponibili per molti, non per lei. Altro bel momento.
Non ci sono battute a vuoto evidenti lungo il percorso di “The Second Big Bang”, di certo chi cerca dell’originalità potrà storcere il naso, qui abbiamo a disposizione un trattato di power prog dai tratti sinfonici suonato e composto con dedizione capacità, che magari non farà gridare al miracolo ma lascia traccia di sé negli acuti sprezzanti di Scheepers e Matos in “White Lion Of Goldah”, nel mix di melodie zuccherose e acre salsedine per gentile concessione di Ripper e della Munhoz in “Games Of Hours”, e ancora nel classico powerone di “Super Black Hole” stile primi Avantasia.

Nel complesso va evidenziata anche la prova strumentale, non mancano assoli ficcanti pieni di gusto e tecnica, tastiere che viaggiano una meraviglia, e il pianoforte sempre presente a caratterizzare ogni traccia. ottima anche la produzione con lo zampino di Dennis Ward. Quanti amano le metal opera possono andare sul sicuro, i Soulspell pur restando un progetto ancora di nicchia, sono tra i migliori rappresentanti del genere dietro il duo Avantasia-Ayreon. Ogni loro album rappresenta una esperienza completa, musicale e visiva, come leggere un libro con annessa la colonna sonora. Un impegno che i brasiliani portano avanti con dedizione e amore per il power, senza voler inventare nulla, ma celebrando i loro maestri di sempre con una passione che risulta evidente.
Da provare, se si cerca un ascolto che non sia un mero sottofondo, ma richiede un’attenzione pienamente meritata.

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