Recensione: The Theory Of Everything

Di Tiziano Marasco - 28 Ottobre 2013 - 9:33
The Theory Of Everything
Band: Ayreon
Etichetta:
Genere:
Anno: 2013
Nazione:
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85

“Di che cosa parlerà il nuovo disco degli Ayreon?”

Eh già, abituati al fatto che i dischi degli Ayreon hanno costituito una lunga saga legata tematicamente, molti devono essere rimasti con un palmo di naso nel vedere l’inarrivabile 01011001. L’ultimo doppio di casa Luicassen aveva infatti analizzato tutto il concept Ayreonautico dall’alba dei tempi al 2084, lasciando intendere che i possibili sviluppi futuri di quest’epopea erano ben pochi. Sinceramente ad alcuni tale mancanza può anche aver suggerito l’idea che il progetto Ayreon non avrebbe avuto ulteriori sviluppi (io ero tra questi), soprattutto se unite ad alcune frasi di Arjen durante le interviste promozionali di 01011001. Frasi che riguardavano la problematica gestione di troppi cantanti, frasi sulle quali torneremo al momento debito.

Ma no, niente di tutto questo. Il genio olandese ha speso gli ultimi 5 anni a progettare un nuovo capitolo per la sua creatura più famosa, un nuovo capitolo che è stato presentato due mesi or sono con l’ambizioso titolo di “The Theory Of Everything”. Un titolo che ancora una volta lascia presagire un sottesto fantascientifico e propositi più che mai ambiziosi, via via suggeriti dalla campagna promozionale. L’artwork, ancora una volta ad opera di Jen Bertels, discepolo di Roger Dean, con la consueta angolazione obliqua, il mare in primo piano e le strutture fantascientifiche  sullo sfondo, lasciava presagire una continuità con i lavori precedenti.

Ma non è così, questo nuovo lavoro si presenta tematicamente scisso, un po’ come lo era The Human Equation. Ancora una volta ci troviamo davanti ad un concept, fantascientifico e decisamente prog. Si tratta della storia di un genio, di un ragazzo prodigio che rivela una predisposizione per la matematica quasi soprannaturale. Nel corso dell’opera il ragazzo deve confrontarsi con le persone che gli stanno attorno, alcune benevole, altre ostili (esattamente com’era stato costretto a fare Me con le sue emozioni durante il coma di The Human Equation); alcune cercano di manipolarlo per migliorarne le capacità  e rischiano di creare un mostro sicché il ragazzo, secondo tradizione prog, è costretto a scendere nei meandri di sé stesso e conoscersi a fondo per poter infine trovare l’equazione con cui esprimere la teoria del tutto. Ora si sa che nei dischi degli Ayreon ad ogni personaggio corrisponde una (grandissima) voce, ma prima di introdurre le voci urge fare un nuovo passo indietro.

Dopo la realizzazione del pluridecorato The Human Equation, Arjen Lucassen aveva notato che gestire tanti cantanti, molto famosi e provenienti da ogni parte del globo, era piuttosto difficoltoso. Sicché per 01011001 aveva deciso di spedire soltanto otto mail, alle quali in un primo momento nessuno rispose. Ragion per cui lo spilungone ne spedì altre otto e fu solo allora che tutti, ma proprio tutti i cantanti coinvolti risposero entusiasti. E fu così che il nostro si trovò a gestire 16 voci più la sua, un mostro ancora più grande del precedente. Da qui una decisione piuttosto semplice: in The Theory Of Everything Arjen non canta. E gli interpreti sono, finalmente, solo otto, tra le quali figura anche una bella fetta di Italia, rappresentata dall’ottima Cristina Scabbia dei Lacuna Coil (madre  del protagonista) e da una fantastica Sara Squadrani degli Ancient Bards. Oltre a loro si segnala l’ottimo Tommy Karevik (singer dei Kamelot svedesi) nel ruolo di “protagonista”, ma soprattutto Marco Hietala, autore di una prestazione davvero maiuscola nel ruolo del rivale. Oltre a ciò va detto che buona parte dei cantanti qui coinvolti sono poco conosciuti, in ogni caso non si tratta di una parata di mostri sacri come era stato negli ultimi tre dischi.

Venendo alla strutturazione del concept invece c’è da restare sgomenti, poiché Lucassen questa volta, anziché pensare ai cantanti, ha voluto strafare sul versante musicale, strutturando la sua creatura in quattro supersuite da venti minuti di topographica memoria, per un totale di 99 minuti e 33 secondi. È un caso? Poco importa perché ciascuna delle supersuite si compone di almeno dieci brani per un totale di ben quarantadue tracce complessive. Teniamo presente poi che alcuni temi si riprendono nel corso del disco, ma è un fatto che quest’album, soprattutto se ascoltato in mp3, si presenta come un’unica impressionante composizione organica ed in costante divenire. Dell’esistenza delle quattro suite si viene a sapere solo andando sul sito di Arjen Lucassen e leggendo l’apposito comunicato stampa. Pertanto tentare una descrizione dell’album nel suo svolgimento non è tanto un’impresa improba, è proprio fatica sprecata, perché anche dopo mille ascolti si ha l’idea di un immenso organismo pulsante in cui ogni strumento ed ogni voce è una parte indistinguibile del tutto, come tante minustole tessere colorate che vanno a costruire uno sterminato mosaico.

Un mosaico che, nei toni cupi e nei suoni mutevoli si avvicina molto, una volta ancora, a The Human Equation, risultando tuttavia molto più variegato. Perché, laddove il buon Arjen si è contenuto nella scelta dei cantanti, dall’altro lato ha chiamato fior fiore di strumentisti per dar vita al suo disco sonosricamente più ricco. A prescindere dal fido Ed Warby, troviamo infatti gente come Rick Wakeman, Jordan Ruddes, Keith Emerson alle tastiere, Steve Hackett alla chitarra, per proseguire con una gamma incredibile di flauti (Jeroen Gossens), archi, arrivando fino agli Uilleann pipes (che non sono cornamuse ma suonano simili) di Troy Donockley, nuovo ingresso dei Nightwish, ed altri strumenti. Questa sinfonica moltitudine fa sì che il classico sound Ayreon si arricchisca di tantissime sfumature personali, per un risultato finale che è sì figlio di Lucassen, ma è anche un immenso caleidoscopio di sonorità che spaziano dal prog al folk all’elettronica. E dunque, data l’incredibile varietà di personaggi coinvolti, tutti incantevoli, a voler analizzare la prova d’ognuno o lo svolgersi dell’album dall’inizio alla fine, questa recensione sarebbe più lunga di un Arcipelago Gulag e più pallosa di un Dottor Živago.

Superato lo sgomento di fronte a questa curiosa sinfonia fiamminga moderna però, resta il fatto che il suono di Arjen si mantiene accessibile e il suo gusto per la melodia di primissimo livello, sicché, poco a poco si finisce per notare i passi che ritornano, emergono tracce, o gruppi di tracce, davvero da brividi. In linea di massima i momenti caldi stanno tra The Prodigy’s World e Love and Envy, tra The Rival’s Dilemma e Quantum Chaos, Tra Collision e Magnetism. Ma discorsi simili non andrebbero fatti perché questa opera rock, come tutte le oper rock, va ascoltata in un’unica, estenuante tirata.

Difficile da metabolizzare? Sicuramente. Inferiore ai suoi predecessori? Di certo inferiore agli incombenti The Human Equation e 01011001, ma eguagliare simili capolavori è impresa ardua, soprattutto rifiutando deliberatamente la possibilità di utilizzare suite di ampio respiro ma comunque contenute in se stesse com’erano Age of shadows o Isis And Osiris. Ciò non toglie che The Theory Of Everything confermi il talento megalomane dell’uomo che vi sta dietro e che lo confermi egualmente come figura di spicco nel panorama progressive metal attuale.

Tiziano “Vlkodlak” Marasco

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Sito ufficiale di Arjen Anthony Lucassen

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