Recensione: This is the Sound

Di Luca Montini - 4 Luglio 2017 - 0:01
This is the Sound
Etichetta:
Genere: Folk - Viking 
Anno: 2017
Nazione:
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80

This is the sound, this is the sound, this is the sound hear me shout it out loud!
 

Questo è il suono. Ascoltatemi mentre lo grido forte. Il suono dei Cellar Darling. Ce n’eravamo accorti già dal singolo “Challenge”, uscito nel settembre del 2016, che dopo l’infausto split con gli Eluveitie, Anna Murphy (voce e ghironda), Ivo Henz (chitarra) e Merlin Sutter (batteria) stessero intraprendendo un percorso che li avrebbe portati alla definizione di un sound più personale, lontano da quello della band con la quale cui i tre giovani hanno calcato i palchi di tutto il mondo. Certo, la componente folk è sempre presente, ma è una sola tra le numerose influenze. C’è la ghironda di Anna, ma il suono esce attraverso gli effetti, si distorce, si contrae e si dilata, nega sé stesso. Vengono meno anche il growl e le venature death della band di origine, l’atmosfera si addolcisce nelle melodie, pur con tutta l’incombenza di liriche, temi ed atmosfere oscure, spesso apocalittiche e foriere di morte e disperazione; un tesoro rinchiuso in un seminterrato, una dolce claustrofobia.
 

The job of a storyteller is to speak the truth. But what we feel most deeply can’t be spoken in words alone. At this level, only images connect. And here, story becomes symbol; symbol is myth. And myth is truth
-Alan Garner

Lo split è stato un momento molto duro per i tre ragazzi, come ci ha raccontato la stessa Anna Murphy nella nostra recente intervista. Per aspera ad astra. “This is the Sound” esce per Nuclear Blast, e racconta in maniera molto personale il rapporto tra parole, immagini e simboli; simboli e mito, mito e verità. Gli stessi simboli che vediamo ritratti nell’artwork di Christopher Ruef: ad ogni simbolo corrisponde uno dei 14 brani nel disco. Ogni brano racconta una storia, un mito, qualcosa di etereo e metafisico. Ma il mito nasce da un’esperienza reale, da un’emozione reale, da un brivido che è verità. Per questo mito è verità.

Propedeutici all’ascolto si rivelano indubbiamente i video che hanno fatto da preludio al disco; piccole opere d’arte con l’attrice Fabienne Fellman a promuovere il lavoro con la propria immagine, oltre quella della band. Dalla già citata e positiva “Challenge”, seguita dalla compagna-di-singolo “Fire, Wind & Earth”, con il suo riff più rock che potrebbe ricordare i Lacuna Coil, si passa alla tremenda ed apocalittica “Black Moon” in un crocevia finale di tutte le religioni, fino all’irruenta “Avalanche”, che dietro alla sua dolce melodia cantilenata (have a lava lunch, direbbe qualcuno) nasconde il gelo mortale di una setta di assassini. Ogni brano ha una sua anima e porta seco un’atmosfera, e l’ascolto è una vera avventura alla ricerca delle proprie immagini, storie e miti preferiti, tutti generati dall’estro compositivo degli svizzeri.
Si potrebbero accusare i ragazzi di aver alleggerito un po’ troppo il sound, con riff leggeri più di matrice rock che metal e tanti strumenti in campo che spesso mettono in secondo piano la parte più heavy, anch’essa una tra le numerose influenze del disco; eppure non si può restare impassibili dinanzi alle idee vulcaniche del combo svizzero, ai vocalizzi ed alle melodie spesso sorprendenti ed imprevedibili di Anna, alle incursioni folk in un sound difficilmente etichettabile: dai passaggi più moderni di “Rebels” e “Starcrusher”, all’anima più progressive in “Hedonia”, dove è possibile perdersi nel suoi ambienti onirici, alla degna conclusione di “Redemption”, che attraverso il suo pianoforte ci accompagna ad un’ultima nota che non arriverà mai, troncata da un “non finito finale” spiazzante. La mia preferita resta “Six Days”, con quell’atmosfera opprimente che ferisce come una piaga, giorno dopo giorno, immersi nel nulla di un mondo ormai al termine della sua orbita mondana.

I Cellar Darling sono una band da esplorare, da vivere prima ancora che da ascoltare. In un genere come il folk che spesso ingabbia le idee in un copy-paste di flauti, chitarre acustiche, cornamuse e violini, ci troviamo con “This is the Sound” dinanzi ad un debut molto interessante, fresco e contemporaneo nella sua essenza evanescente; un lavoro non proprio per tutti i palati, ma che sa trasportare l’ascoltatore attraverso la sua costellazione a quattordici stelle con grande personalità e carisma, tra mito, immagini, simboli e verità.

Luca “Montsteen” Montini
 

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