Recensione: More Balls to Picasso

Di Luca Montini - 19 Agosto 2025 - 0:00
More Balls to Picasso
Etichetta: BMG
Genere: Heavy 
Anno: 2025
Nazione:
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65

Nella sua autobiografia del 2017 “What Does this Button Do” (in Italia edito da Harper Collins con il titolo A cosa serve questo pulsante?”), il leggendario frontman degli Iron Maiden Bruce Dickinson scriveva: “Balls to Picasso non ebbe un grandissimo successo. A posteriori, avrebbe dovuto essere un disco più duro, più energico, e sarebbe stato così se alla produzione ci fosse stato Roy Z, ma per prudenza l’incarico era stato affidato a Shay Baby, dal momento che mi parve prematuro gettare subito Mr Z nella mischia”. Si trattava di una cautela in parte giustificata nel lontano 1994, in occasione del suo secondo album solista, il primo ad uscire dopo la storica separazione con gli Iron Maiden (coi quali si sarebbe riunito nel 1999), nonché il primo con Roy Z alle chitarre, in un periodo in cui erano alte le aspettative così come la delusione dei fan della vergine di ferro.

In occasione della rimasterizzazione del disco in formato Dolby Atmos, ecco finalmente presentarsi l’opportunità di mettere mano alla produzione originale di un disco disomogeneo come Balls to Picasso. “More is more”, per citare il buon Malmsteen, ed ecco che vengono aggiunte “more balls” al platter. Come affermato dallo stesso Bruce Dickinson:

Mentre mixavo tutto il mio catalogo in Dolby Atmos, ho sentito il desiderio di rivedere e reinventare il disco. Quindi mettere più grinta in Balls to Picasso è stata un’opera di amore verso l’album. Naturalmente, abbiamo potenziato le chitarre grazie al nostro shredder svedese Philip Näslund e abbiamo aggiunto anche un intervento di chitarra davvero bello di Adassi Addasi su “Tears of the Dragon“. Il compositore brasiliano Antonio Teoli ha aggiunto degli arrangiamenti orchestrali stupefacenti e con un contributo  davvero unico ha inserito strumenti indigeni dell’Amazzonia (registrati da lui stesso quando viveva lì!) all’inizio di “Gods Of War“. In “Shoot All The Clowns” è presente una sezione di fiati diretta dal Berklee College of Music, e tutto il disco beneficia del mix di Brendan Duffey, che ha lavorato su The Mandrake Project, e di commenti aggiuntivi di Shay Baby, il produttore originale dell’album.

Va premesso che nulla del disco originale è stato rimosso, la “reimagined version” di tutti i brani ha riguardato tutte le tracce rafforzando la parte heavy, tanto che il disco suona davvero molto più metallico, pesante e moderno, superando le incertezze della produzione originale. Con risultati alterni: il capolavoro “Tears of the Dragon”, forse ancora oggi il brano più ascoltato e rappresentativo della ricca produzione solista di Bruce Bruce, probabilmente perde molto con orpelli orchestrali che tolgono immediatezza ad un brano altrimenti diretto ed efficacissimo. Certo è che le chitarre qui suonano molto più pesanti, come se qualcuno avesse ripreso i suoni originali e li avesse ri-amplificati con una distorsione molto più marcata, penso a brani come l’opener “Cyclops”, al referain di “Gods of War” o al riffone di “Laughing in the Hiding Bush”. Si aggiungano all’offerta un paio di brani in chiusura: “Gods of War” e “Shoot All the Clowns” ri-registrate in studio questa nuova versione con l’attuale lineup, con un Dickinson sessantasettenne in gran spolvero.

Rispetto all’operazione di “re-immaginazione” dei brani si potrebbe fare un’obiezione di principio valida per qualsiasi lavoro analogo, sostenendo ad esempio che interventi del genere non rispettano l’identità di un prodotto che, per sua natura, ha una propria collocazione storica e stilistica, oppure che questo lavoro di limatura non abbia proprio senso, rappresentando un mero orpello commerciale per spillare qualche denaro ai (tanti) fan di Bruce Dickinson dopo l’ultimo full-lenght solista The Mandrake Project (2024). Per chi scrive tali pregiudizi non hanno ragion d’essere in sede di recensione, ed è giusto che sia la musica a parlare. Il risultato dopo numerosi ascolti è estremamente gradevole, anche a fronte dei numerosi rischi che un’operazione del genere comporta, complice il fatto che i pezzi originali non sono stati modificati nella sostanza, preservando in maniera rispettosa l’originale, così come resta immutata la performance vocale dell’epoca di Bruce, in un disco che nello stile prendeva molto le distanze dai lavori con la band di Steve Harris, con incursioni da generi molto lontani dal metal.

In conclusione, devo ammettere che per molti dei brani del platter risulta quasi più godibile su un buon impianto questa nuova produzione fiammante del buon vecchio “Balls to Picasso” del 1994. Se poi il disco avrà attirato l’attenzione di qualche neofita verso la produzione solista di Bruce Dickinson – ricordo che nell’ultima data dei Maiden a Padova c’erano 40.000 spettatori – tanto meglio. Poco conta se finiremo per ascoltare questo prodotto due/tre volte al massimo sulle piattaforme digitali, riscoprendo la storia del disco e vivendo qualche ora di ricordi carichi di nostalgia dei nostri anni ‘90 per poi passare rapidamente ad altro: l’operazione può dirsi in buona parte riuscita.

Laughing in the hiding bush
The joker is back!

Luca “Montsteen” Montini

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