Recensione: Band of Brothers

Il settimo lavoro in studio dei Warmen esce abbastanza in sordina e, con altissime probabilità, finirà nel dimenticatoio in stealth totale come l’agente 47. Per chi non li conoscesse, i finlandesi suonano ad oggi come un clone non troppo riuscito dei Children of Bodom; non bastano Petri degli Ensiferum e Janne Wirman a risollevare un disco che si rivela comunque un satellite minore e poco più. Il genere della band madre è metabolizzato ed eseguito bene da tanti ma suonato da pochi, ed è qui che casca l’asino, perché il problema di queste operazioni o supergruppi risiede sempre e comunque nel songwriting.
Band of Brothers non è però tutto da buttare e certi guizzi ci sono, ma sono soluzioni esplorate dai CoB in lungo e in largo e con risultati di altro livello. Guarda caso, i guizzi migliori del disco vengono sempre e comunque da Janne, chissà perché. La tracklist è composta da dieci brani e scorre senza problemi, ma anche senza lasciare nulla a chi ascolta, tranne una marea di deja vu (il più eclatante è la strofa di Nine Lives, leggermente simile a quella di Nemesis degli Arch Enemy, leggermente eh) e momenti più o meno sufficienti.
I CoB erano famosi anche per le loro reinterpretazioni di brani avulsi dal loro genere, e ovviamente anche i Warmen adottano lo stesso modus operandi chiudendo l’album con una improbabile The Kiss of Judas estrapolata da un certo Visions e da una Finlandia che era ancora fucina di talenti e capolavori.
Gira e rigira i Warmen suonano, si divertono, si sbattono ma fanno quasi completamente cilecca; cosa manca per poter mettere in carreggiata le cose? Semplice, manca Alexi (Rip.). Detto questo, se siete vedove inconsolabili dei CoB un ascolto ai Warmen è quasi obbligato e vi consigliamo il più che dignitoso Symphony of the Night degli Ulthima, ma in ogni caso con la certezza che metterete su Follow the Reaper subito dopo e saranno lacrime.