Recensione: Xenotaph

Di Giovanni Picchi - 23 Settembre 2025 - 12:00
Xenotaph
80

Approcciarsi all’ascolto di un album dei Fallujah non è cosa semplice data la complessità della proposta del gruppo di San Francisco. Già a partire dalla cover del disco, cosmogonica e affascinante a tal punto da non resistere ad acquistarne il vinile ad occhi chiusi, è giocoforza intuire che ci troviamo di fronte a qualcosa di indefinibile e che richiede un certo sforzo per tradurre la musica in emozioni. Aggiungiamo anche i recenti stravolgimenti nella formazione avvenuti già a partire dal precedente “Empyrean” del 2022, album che aveva segnato il ritorno a certe soluzioni più tecniche e progressive (in parte abbandonate nel controverso “Undying Light” del 2019) e che aveva visto l’ingresso in formazione del bassista Evan Brewer (già con gli Entheos ed i seminali The Faceless dello sperimentale “Autotheism”, tra gli altri) e del cantante Kyle Shaefer (Archaeologist, impegnato anche nelle parti con il sintetizzatore). A questi si sono aggiunti di recente il batterista Kevin Alexander (Disembodiment Tyrant, Brought by Pain) e il secondo chitarrista Sam Mooradian (Inhale Existence) mentre l’unico membro originale, Scott Carstairs alle sette corde, in quest’ultima fatica ha condiviso parte del songwriting con i restanti membri della band. Posso dire che, anche di fronte a cambiamenti così radicali, quando si tratta di inserire ottimi musicisti e il genere è il technical/prog-death metal, difficilmente si sbaglia o si rimane delusi.

Nonostante alcuni giudizi non concordi su questa opera, “Xenotaph” rappresenta invece un altro passo in avanti per i Fallujah, giunti qui al sesto full-lenght, che offrono all’ascoltatore una gamma di idee e di soluzioni che si dipanano lungo tutta la durata dell’album e che solo un ascolto attento e senza pregiudizi ne può far cogliere le diverse sfumature. Rispetto al passato, l’osticità tipica della band viene questa volta edulcorata da ampi sprazzi più orecchiabili e passaggi più meditati in cui, nonostante la forma canzone tradizionale sia stravolta e l’album sia zeppo di suoni, ritmiche e soluzioni stilisticamente dissonanti e multi-stratificate, si fa un uso sapientemente ponderato di parti melodiche attraverso l’uso della voce pulita, degli strumenti e dei cori. Ciò non vuol dire assolutamente che ci troviamo di fronte ad uno stravolgimento dello stile tipico del gruppo: le canzoni mantengono una struttura poliedrica non immediatamente assimilabile, in cui pesantezza e soluzioni tecniche fusion e progressive le fanno da padrone, ma si uniscono a parti più groove e ariose avvicinando i Fallujah a bands come Ne Obliviscaris e Rivers of Nihil su tutte (in quest’ultima Schaefer ha prestato la propria ugola nel tour del 2023 e qualcosa devono avergli ispirato), senza dimenticare alcuni momenti in cui sembra di sentire la carica degli Psycroptic o l’imprevidibilità di gruppi come Inanimate Existence, The Zenith Passage, Fractal Universe, Arkaik e compagnia funambolica.

Otto tracce per 42 minuti di musica straordinaria unite in un concept che rappresenta un vero e proprio viaggio nella mente del protagonista: l’opera infatti è ispirata al terzo capitolo della saga di “Dune” di Franz Herbert, “I figli di Dune”, e le atmosfere di questi mondi immaginari, con sullo sfondo le vicende del protagonista, fortemente intrise di astrattezza concettuale e di psicologia onirica, hanno fortemente ispirato la musica dei nostri, che cercano soluzioni nuove mettendo la tecnica al servizio della canzone e tramutando i sogni, i pensieri e le lotte interiori in musica.

“In Stars We drown”, posta all’inizio, fa da introduzione al concept, con i suoni languidi degli strumenti uniti alla voce pulita di Schaefer, che esplodono all’improvviso in un vortice musicale tra growling e stacchi al fulmicotone, per poi calmarsi e sfumare nel finale. La seconda canzone, “Kaleidoscopic Waves”, la più rappresentativa dell’album, è la summa stilistica del nuovo approccio dei Fallujah: sezioni violente in puro stile death metal alternate a parti melodiche con voce pulita, chitarre in alternate picking e assoli jazz-fusion, con le ritmiche quasi impazzite tra funambolici pattern di batteria e basso che costringono l’ascoltatore a sforzi non indifferenti per seguire sia l’uno che l’altro strumento. La melodie, soprattutto le parti in clean vocals, potrebbero essere quasi croce e delizia del disco, in quanto possono sembrare poco coerenti con il contesto musicale complessivo, dissonante e imprevedibile.

Questo lo si nota soprattutto in “Labyrinth of Stone”, che possiede un refrain breve e molto melodico, uscito come primo singolo della band con un video che li vede protagonisti tra Ferrari e Lamborghini, semplice nella sua struttura ma incastonato in un vortice di soluzioni e cambi di tempo fortemente stratificati e diversificati, tra assoli fusion, bridge dissonanti, parti veloci e rallentate.

“The Crystalline Veil” è veloce e all’apparenza più prevedibile, almeno all’inizio, ma subito dopo si arricchisce di momenti più riflessivi e sezioni più elaborate a cui non si può dare una struttura ben definita e lineare, così come in “Step through the Portal and Breathe”, che ritengo la più interessante del lotto per via delle innumerevoli sfumature che evocano fortemente l’essenza jazz della band, imprevedibile e stilisticamente sempre più eclettica nel cercare soluzioni originali, che si traducono in un brano lungo quasi 7 minuti.

La produzione, in collaborazione con Dave Otero (Archspire, Cattle Decapitation) e Mike Low (Aborted, Vitriol) è cristallina e molto moderna: questo aiuta di molto l’ascolto, che potrebbe risultare ostico ai più, soprattutto se si è avvezzi a sonorità più grezze. La jazzistica “A Parasitic Dream” fa da introduzione alla più lunga “The Obsidian Architect”: qui i momenti melodici sono evidenziati dal contrasto di tre stili vocali, sia in clean che in screaming e growl , ma la canzone possiede altre innumerevoli parti diverse tra loro in cui a tratti fanno capolino anche le tastiere che accompagnano il semplice refrain. La conclusiva title-track, lunga 7 minuti e mezzo, la più vicina per stile alla passata produzione della band, è allo stesso tempo veloce, pesante, tecnica ma con meno elementi connotanti rispetto alle precedenti.

In conclusione, ci troviamo di fronte ad un’opera sì complessa e in parte ostica, ma che sa trasmettere l’atmosfera voluta dalla band, possedendo tutte le caratteristiche per rimanere tra le hit del 2025 per ogni tech-death fan che si rispetti. Merita i 200 ascolti che deve.

Fortemente consigliato.

Ultimi album di Fallujah

Band: Fallujah
Anno: 2025
80
Band: Fallujah
Genere: Death 
Anno: 2019
79
Band: Fallujah
Genere: Progressive 
Anno: 2016
72