Recensione: Firehose Of Falsehoods

Gli O.R.k. tornano con “Firehose of Falsehoods“, un album che conferma la loro natura di “superband” internazionale, forte di musicisti provenienti da realtà iconiche: Pat Mastelotto (King Crimson) alla batteria, Colin Edwin (Porcupine Tree) al basso, Carmelo Pipitone (Marta sui Tubi) alla chitarra e, soprattutto, Lorenzo Esposito Fornasari alla voce. Il titolo significa letteralmente “fiume di falsità” ovvero descrive una tecnica di propaganda e disinformazione che consiste nel bombardare il pubblico con un flusso costante, massiccio e rapido di messaggi, spesso contraddittori, non verificati o palesemente falsi. In un mondo dove la verità è sempre più sfuggente, l’intento del gruppo è contrapporsi alla menzogna con la sincerità della propria musica e dei propri testi.
“Firehose of Falsehoods” si presenta come un album sincero sì, ma un po’ ‘di mestiere’ ovvero a tratti poco coeso: la scrittura frammentaria e la difficoltà d’integrazione tra i singoli strumenti ne compromettono la compattezza. Se l’obiettivo era evocare un impatto essenziale e primordiale, quasi grunge-oriented, la discontinuità del songwriting smorza la carica viscerale che dovrebbe emergere. Se invece il tentativo era quello di affacciarsi a un progressive alternativo ai canoni del prog metal/rock contemporaneo, anche qui manca un’architettura compositiva solida per alzare davvero l’asticella, come fatto da band quali i Pain of Salvation a partire da “Falling Home” per esempio.
A rendere il disco comunque interessante è il suo mood oscuro e tragico, una coltre emotiva che Lorenzo Esposito Fornasari interpreta con assoluta maestria (qui parliamo di talento puro): la sua voce riesce a trasmettere tensione, drammaticità e sfumature interiori con un’intensità fuori scala, tale da rappresentare il vero cuore pulsante dell’album. Paradossalmente, sono proprio i limiti strutturali e le mancanze a livello di produzione a mettere in risalto la sua bravura smisurata.
Ed è qui che emerge un punto dolente: a mio parere, una maggiore attenzione al lavoro strumentale e alla profondità dei suoni avrebbe potuto trasformare “Firehose of Falsehoods” in una vera e propria opera d’arte. L’atipicità del songwriting e le abilità dei musicisti avrebbero offerto un potenziale enorme, che però resta in parte inespresso e confinato da scelte stilistiche forse troppo limitanti.
Un disco imperfetto, sospeso tra grunge e progressive, che non raggiunge pienamente nessuno dei due approdi, ma che merita di essere ascoltato per la sincerità del messaggio e la caratura dei suoi interpreti.
In definitiva, le atmosfere cupe, quasi tragiche di “Firehose of Falsehoods”, trovano nella voce di Fornasari un canale di espressione assoluto, mentre la sezione strumentale, pur valida, ribadiamo, avrebbe potuto incidere molto di più. E questa è l’unica nota di retrogusto amaro di un lavoro che mostra dei limiti (non di qualità oggettiva) in contrapposizione a lampi di talento puro, soprattutto al microfono e un potenziale che, se meglio incanalato, poteva condurre a traguardi davvero memorabili. Della serie… ‘forse si sarebbe potuto fare davvero di più …con un po’ più di lavoro di squadra e di tempo’. Disco comunque da avere perché non ne escono molti di album così esclusivi, al di là d’ogni altra considerazione. Accattivante, e parecchio…