Sludge

Intervista Cult of Luna (Johannes Persson)

Di Davide Sciaky - 6 Gennaio 2020 - 9:00
Intervista Cult of Luna (Johannes Persson)

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Intervista a cura di Davide Sciaky

Ciao Johannes, come va?

Va bene, molto bene, anzi.

 

Il vostro nuovo album, “A Down to Fear”, è uscito un paio di mesi fa. Sei contento di come è stato accolto dai fan e dalla critica?

Non sono sicuro di come sia stato accolto dalla critica, magari me lo puoi dire tu [ride].
Contento non è la parola giusta, sono contento dell’album, questo è quello di cui siamo contenti, poi se la gente lo ha apprezzato tanto meglio.
Sai, raramente la gente ti verrà a dire, “Il tuo album fa schifo”, la maggior parte della gente che viene a parlartene dirà che gli è piaciuto, e questo è sempre bello da sentire, ma, sì… per ora chi è venuto a parlarcene l’ha accolto positivamente.

 

Quando suonate i nuovi pezzi dal vivo vedete una buona risposta dal pubblico?

Sì, voglio dire, penso che tutte le canzoni funzionino bene dal vivo, cosa che non è sempre successa da subito con gli album vecchi, con alcune canzoni è stato difficile adattarle al contesto live, ma penso che quelle nuove che stiamo suonando ora funzionano molto bene.

 

Mi parli del processo di scrittura per i Cult of Luna? È un lavoro collettivo, o vi approcciate individualmente al songwriting?

È un po’ di entrambi perché viviamo così lontani, quindi quando finalmente decidiamo che è il momento di incontrarci per lavorare a delle canzoni – abbiamo bisogno di un paio di mesi per organizzare questi incontri – quando ci incontriamo abbiamo bisogno di avere delle idee piuttosto concrete, canzoni che non sono ancora arrangiate, ma magari con una bozza di arrangiamento.
Per il mio lavoro mi prendo il mio tempo, scrivo delle bozze al computer, ma comunque è un processo molto aperto, chiunque può dire la sua; in ogni caso abbiamo bisogno di avere materiale concreto su cui lavorare quando ci vediamo, non jammiamo, magari per qualche parte sì, ma in tutte le nostre canzoni la struttura è molto rigida.

 

Con “Mariner” mi dicesti che l’album era una sorta di concept sul “guardare nello spazio, la bellezza della vastità dello spazio”, che con “Somewhere Along the Highway” c’era uno sfondo rurale e con “Vertikal” vi eravate spostati nella città… di cosa si tratta questa volta?

Questa è stata la più grande differenza nello scrivere quest’album rispetto a tutti gli altri, a parte giusto il primo, perché all’epoca eravamo dei ragazzini che stavano semplicemente pubblicando tutte le canzoni che avevamo.
Per la maggior parte, quando cominciamo a scrivere delle canzoni abbiamo già in mente il tema che l’album dovrà seguire, abbiamo un arco narrativo, una storia; prima ancora di iniziare a scrivere decidiamo di cosa parlerà la storia e come scriverla, come renderle giustizia, la copertina, l’aspetto grafico dell’album, i video e così via.
Con questo album volevo lavorare al contrario, volevo scrivere canzoni più spontaneamente e lasciar uscire qualunque cosa mi passasse per la mente, che fosse nella forma di testi o di parole, e dopo aver scritto un paio di canzoni abbiamo fatto un passo indietro e abbiamo cercato di interpretarle, cosa significa questa canzone, qual è il tema; abbiamo osservato le canzoni dall’esterno e così abbiamo capito di cosa parlavano e abbiamo potuto decidere tutto il resto.
Non è come… uso questa brutta analogia [ride], prima partivamo da un’immagine e dicevamo, “Okay, questo è quello che vogliamo fare”, era come un puzzle, davamo forma ai pezzi per creare l’immagine complessiva.
Questa volta abbiamo creato i pezzi, li abbiamo messi insieme, abbiamo fatto un passo indietro per osservarli e abbiamo detto, “Okay, che immagine è venuta fuori?” [ride].
Quindi da questo punto di vista è un album molto diverso, ma è stata una ventata di aria fresca lavorare in questo modo.

 

Diresti che la tua musica riflette la tua personalità, e viceversa? A volte mi è capitato di parlare con musicisti che fanno musica molto triste e li ho trovati invece allegri e solari, o il contrario con chi fa musica di altro tipo. C’è qualcosa di simile anche con te?

La gente è sfaccettata, non penso che le persone siano una cosa sola, io sono solo un cazzone imbranato come tutti ma, detto ciò, tutto quello che senti in questa band è genuino al 100%, non è che mi invento delle cose, quello che senti sono io, solo che non sono così in ogni momento.
Ho bisogno di un equilibrio tra… sai, mi piace dire che sono la più felice persona incazzata che conosco [ride] quindi c’è molta rabbia, ma…

La fai uscire tutta con la musica.

Sì, esatto.

 

Questo è il vostro prima album con la Metal Blade, com’è stato lavorare con loro?

Dovresti chiederlo a qualcuno che lo sa.
Io cerco di stare il più lontano possibile dal lato del business della band.
Lavorare con loro è stato, dal mio punto di vista, si sono occupati di organizzare interviste e cose così; ho fatto molte interviste negli ultimi mesi, e la sensazione è che sanno fare il loro lavoro, sono in giro da 35 anni e hanno la mia piena fiducia.
Poi sono una label figa, hanno pubblicato alcuni degli album Metal più grandi di sempre.

 

L’ultima volta che abbiamo parlato, era due giorni dopo l’uscita di “Mariner”, parlammo della possibilità di sentire quell’album dal vivo, mi dicesti, “Non succederà mai!” …

Sì!

… e ovviamente l’avete suonato.

[Ride]

Non te lo farò pesare, adoro quell’album! Cosa vi ha fatto cambiare idea?

Il nostro agente continuava a rompere e abbiamo dovuto suonare il disco per farlo stare zitto.
Guarda, anche una volta accettato di fare il tour non sapevamo se saremmo stati in grado di suonarlo come si deve, ma ha funzionato bene, mi è piaciuto molto suonare quegli show, adoro suonare con Julie.

Pensi che possa succedere di nuovo?

Guarda, non ti dico di no, ma al momento non c’è niente in programma.
Ho parlato con Julie, io e lei suoneremo insieme con la sua band al Roadburn.
Oltre a quello non lo so.

Ecco, questa è un’altra cosa che ti volevo chiedere: ti è stato commissionato un pezzo insieme a Perturbator per il Roadburn: com’è nato questo progetto? Voglio dire, la musica dei Cult of Luna e di Perturbator è così diversa, chi ha pensato di provare a metterle insieme?

È stato James [Perturbator], James sa che sono un fan della sua musica, e lui è un fan della mia, quindi immagino che sia una buona combinazione!
È una brava persona, andiamo d’accordo, e ora stiamo lavorando a questa cosa.

Come sta andando per ora?

Abbiamo scritto tre canzoni.

Cosa sarà, un album intero?

Sì, l’album saranno 60 minuti di musica, è un sacco di musica, ma penso che se continueremo con il ritmo che abbiamo adesso dovremmo riuscire a farcela.

Mi puoi descrivere la musica?

Posso, è 50% Perturbator, 50% Cult of Luna.
Questo è il modo migliore in cui riesco a descriverla.

 

Nel 2017 avete pubblicato tre album live: “Live at Roadburn 2013”, “Somewhere Along the Highway: Live at Roadburn 2016” e “Live at La Gâité Lyrique: Paris”.

Già, quest’ultimo non so neanche come si pronuncia [ride].

Come mai avete scelto di pubblicare così tanti album dal vivo in un solo anno?

Stai parlando con la persona sbagliata [ride].
Me l’hanno chiesto, ho ascoltato le registrazioni, “va bene, suona bene”.
Se a qualcuno interessano, perché no; personalmente io non sono un grande fan degli album dal vivo, ad essere sincero.

 

Qualche anno prima, nel 2009, avete pubblicato il DVD “Fire Was Born”. Come diresti che è cambiato il vostro spettacolo dal vivo da allora?

Molto, direi.
È quasi come se fossimo una band diversa.
Abbiamo decisamente fatto un passo avanti con lo spettacolo di luci, c’è stato un cambiamento concettuale per quanto riguarda l’intero aspetto live.
E penso che siamo migliorati.
Spero che siamo una band diversa, sono passati 10 anni.

Perché dici che lo speri, non ti piace come eravate prima, o nel senso che speri di essere cambiato in meglio?

Nel senso, spero che siamo diventati una band migliore, così come spero che saremo migliori tra cinque anni.
Sarebbe triste se peggiorassimo col tempo.

 

La vostra musica è molto atmosferica e, per me, dal vivo funziona meglio in un locale al chiuso con luci soffuse e cose del genere. Hai un tipo di ambiente preferito dove suonare?

No, non direi che ne ho uno preferito, mi piace tutto.
Non ho problemi con il suonare in locali piccoli, quelli davvero piccoli, mi piacerebbe fare un tour di locali piccoli, l’unico problema è che il palco è troppo piccolo.

Quando hai due batterie…

Già [ride].
Fintanto che riusciamo a suonare il nostro set completo con il nostro backdrop – cosa che tra l’altro stasera non riusciremo a fare perché il palco non è abbastanza profondo, triste – ma fintanto che abbiamo un palco abbastanza profondo io sono contento.

 

A volte leggo le interviste di altre persone e vedo domande super profonde su metafore, filosofia e via dicendo e personalmente faccio fatica a fare domande del genere perché penso che il più delle volte i musicisti seguano la propria creatività in maniera subconscia senza dire, “Okay, con questo testo cito questo, quindi significa questo e questo”. Come funziona per te? C’è davvero tutto questo ragionamento dietro la tua musica e testi, o segui semplicemente il flusso della tua creatività?

In questo caso particolare, con queste nuove canzoni, ho semplicemente seguito il flusso, il subconscio, e questa è stata una scelta precisa.
Ma, avendo detto ciò, la razza umana, noi lavoriamo molto con il simbolismo e questo genere di cose, quindi penso che sia una cosa che succede che tu lo voglia o meno.
È interessante perché io analizzo i miei stessi testi…

Dopo che li hai scritti?

Sì, esatto.
Cosa significa questa cosa? Dalla prospettiva in cui ero nel momento in cui ho scritto quella cosa, potresti pensare che siano parole senza senso, parole a caso, ma in realtà hanno molto senso.
Okay, dov’ero quando ho scritto questa cosa? Sai, è stato un viaggio interessante analizzare la mia musica.

Interessante! Perché ogni volta che leggo queste complesse analisi mi viene da chiedermi, “L’artista voleva davvero dire tutte queste cose, o l’autore si sta inventando cose che quel musicista in realtà non aveva mai pensato?”.

Sì, ma è parte dell’arte.
Ad essere onesto ti dico che quando noi – e quando dico “noi” intendo me e chiunque altro – mettiamo degli artisti sul piedistallo, quando pensiamo a loro come a dei geni, ti assicuro che nel 99% dei casi non ci sono tutti questi ragionamenti dietro ai loro lavori.
David Lynch semplicemente fa cose.
Perché ho scelto di fare questa cosa? Perché mi piace!
Ma significa questo e questo e quello? No, semplicemente mi piaceva.
Ma penso che sia fantastico il fatto che ci puoi leggere dentro degli altri significati, è parte del processo artistico.
Ma penso che davvero pochi artisti creino pensando, “Questo significa quest’altro, e se lo connetti con…”, no, semplicemente gli piace quella cosa.
E io scrivo in questo modo, seguo un percorso che capisco, che conosco, con cui sono a mio agio, ma si riconduce tutto a quello mi piace e non mi piace.
Poi, se qualcuno vuole scriverci sopra un saggio, siete i benvenuti!