Heavy

Intervista Judas Priest (1985)

Di Stefano Ricetti - 7 Luglio 2006 - 12:26
Intervista Judas Priest (1985)

Visto l’apprezzamento di voi lettori alle interviste “datate” pubblicate di tanto in tanto su Truemetal, dopo Iron Maiden, Metallica e Manowar, ora è la volta dei Judas Priest, nella persona di Rob Halford. La chiacchierata, in modalità esclusiva, avvenne nel maggio 1985 da parte di Piergiorgio Brunelli e uscì all’interno della rivista Rockerilla numero 59/60 del luglio/agosto 1985.  I Judas Priest erano nella fase post Defenders of the Faith (1984) e si apprestavano a realizzare l’album Turbo, poi uscito nel 1986. 

Come al solito l’intervista è stata riportata integralmente.

Buona lettura.

Stefano “Steven Rich” Ricetti

Maggio 1985

La mia prima volta a Los Angeles. All’Holiday Inn di Hollywood sono alloggiati tutti coloro che arrivati da fuori città per presenziare alla registrazione del singolo per il progetto Hear’n’Aid per la fame nel mondo. Rob risiede nella camera numero1503, di fronte a me, tra Geoff Tate (Queensryche) ed Eddie Ojeda (Twisted Sister). Ho osato avvicinarlo: Rob è estremamente disponibile e affabile. Non crea nessun problema, anche perché le pause fra le varie fasi della registrazione sono abbastanza lunghe. Nel momento in cui è arrivato il suo turno gli ci è voluto un po’ per carburare la voce ma, quando dopo venti minuti ha aperto l’ugola, molta gente (Ronnie James Dio in sala regia compreso), ha trattenuto a fatica espressioni di sorpresa. Il suo talento è indescrivibile a parole. Come i miracoli, non è possibile credere senza aver visto. La sua voce è come un animale selvaggio prorompente e agile. Rob Halford è stato l’unico a improvvisare sui testi che Ronnie gli ha fornito, serpeggiando fra le linee con cambi di tonalità da brivido.

Rob – Ogni musicista ci impiega un po’ a carburare. Si anticipa psicologicamente la registrazione un po’ troppo, cercando di andare in studio e fare un buon lavoro. Soprattutto quando sai che stai per lavorare con performer così bravi vuoi rendere giustizia al progetto, vuoi dare il meglio. Arrivi lì con tante idee per la testa che ti ci vuole un po’ a fare chiarezza nel cervello. Il piacere di lavorare con Ronnie è che, siccome è un cantante come me, capisce i sentimenti, le apprensioni, i problemi. E’ stato divertente lavorare con lui, non potrei aver avuto a che fare con persona migliore. Ci vuole un soggetto con del buon senso per dirigere questi progetti di beneficenza e nessuno lo poteva fare meglio, perché in lavori del genere non c’è posto per l’egocentrismo. Non ci vuole autorità, ma sensatezza.

Ti ritieni egocentrico?

Rob – No, sono sicuro dei miei mezzi: credo di essere bravo in quello che faccio. Certa gente va oltre il semplice fatto di credere in se stessa e si autodanneggia bruciandosi molto in fretta. Cadono nel trip della rock’n’roll star ed è facile perdere il contatto con la realtà. Fortunatamente il background dei Judas Priest è quello di una band della classe lavoratrice. Ci sono voluti anni per affermarci. Non è stato, il nostro, il caso di una facile escalation verso il successo. Noi non ci associamo molto a questo genere di persone.

Quanti anni sono che siete in giro?                  

Rob – Il prossimo album sarà il decimo: una decade di Judas Priest su vinile. In effetti siamo assieme da quindici anni. E’ passato tanto tempo: è stata una grossa associazione, che ha lavorato sempre bene.

Un po’ meno con i batteristi… o no?

Rob – Perché la sezione ritmica nell’heavy metal è la parte più importante e anche il minimo problema si evidenzia enormemente. A volte ci vuole un album, a volte di più, per accorgersi se qualcosa non funziona. Sono contento che le cose si siano stabilizzate con Dave Holland, il che ha risolto i problemi.

C’è stato un punto della vostra carriera in cui era evidente il tentativo di cercare strade nuove musicalmente. Cosa è successo al tempo di Point of Entry?

Rob – Ogni artista è afflitto dal dilemma se progredire con la musica anno dopo anno. Il nostro atteggiamento è stato quello di esplorare tutte le potenzialità e tutte le varietà che sentivamo di poter ottenere dall’heavy metal. Point of Entry era una deviazione dal binario che ci si aspettava dopo un album come British Steel. Una cosa di cui non ci si può accusare è quella di fare un album uguale all’altro. Con Point of Entry esplorammo certe aree con canzoni come Turning Circles e Don’t Go, che molta gente nel business apprezzò, mentre la nostra audience non capì. Sono sicuro che c’erano ragioni genuine per ciò, infatti tutti i nostri album hanno venduto molto bene, senza apprezzabili flessioni. In conclusione quella era una direzione che la gente criticò: noi imparammo la lezione e cambiammo indirizzo, proponendo Screaming for Vengeance, che era più simile al vecchio suono. Noi non scriviamo mai qualcosa di cui non siamo assolutamente soddisfatti, ma la linea che divide le opinioni dei fan da quello che si deve fare è così sottile che si rischia di essere condizionati dalle loro richieste oltre il necessario. Si deve fare quello che si desidera. In ciò si che si diventa egoisti ma ci deve essere un’area di autonomia per cui si spera che il disco proposto venga accettato.

Un altro episodio che mi ha lasciato perplesso fu United (da British Steel)

Rob – I Priest sono stati un po’ i precursori dei cosiddetti anthem con Take on the World su Hell Bent for Leather. Non c’è niente di più bello dell’avere un pubblico che canta con te. Gli anthem sono sempre scritti in previsione dei concerti, alla gente piace. Defenders of the Faith è anch’essa per i nostri fan.

La vostra popolarità in Europa è in calando…

Rob – E’ colpa nostra perché non ci suoniamo come dovremmo e come eravamo soliti fare. Il nostro agente non ci ha mai portato in Italia, per esempio, e non so il perché.

Avete passato molto tempo a Ibiza…

Rob – Si, ci siamo stati un paio di mesi a scrivere il materiale per il nuovo album. Dopodiché siamo stati a Phoenix (dove Rob abita) provando le nuove canzoni e ora siamo pronti a registrale per il disco, che metteremo assieme alle Bahamas, al Compass Studio di Nassau. Il produttore è Tom Allom, con un co-producer possibilmente americano per avere un orecchio diverso ad ascoltare i brani.

Gli Usa sono ormai la vostra nuova patria.

Rob – Tanta gente ci critica perché ci siamo esiliati per ragioni di tasse. Si decide anno dopo anno. In genere, le opinioni a riguardo sono diverse. Ci si impiega tanto tempo ad arrivare che si vuole tenersi stretti i soldi il più possibile, da un lato. Ma non c’è mai certezza per il  futuro, così si ragiona in previsione di momenti di scarsa popolarità. Come tutti sanno, non si è rockstar per tutta la vita. Certa gente crede che dopo aver guadagnato milioni di dollari non si voglia più vivere nel proprio paese per godere di lussi e di ricchezze che, in realtà, sono assai più ridotti di quanto non si creda. Noi abbiamo ancora la residenza in Inghilterra e quando tutto ciò sarà finito torneremo a Birmingham, da dove siamo partiti. In ogni caso siamo fuori dal paese per otto/dieci mesi all’anno per cui non ci conviene comportarci da corretti cittadini britannici felici di pagare le tasse.     

Dall’alto della vostra longevità come vedete la scena musicale rock al momento?

Rob – Io credo di tenermi il più possibile informato su quello che c’è in giro. E’ un momento di magra, perché le radio non suonano più HM, Mtv non trasmette più video. E’ molto strano. Secondo me c’è stata una saturazione del mercato dopo diciotto mesi di abbondanza, soprattutto in America. Molta gente del business ha avuto paura di esagerare nel proporre l’HM. Gli sponsor sono così cominciati a mancare e probabilmente per un periodo limitato sarà difficile per tutti. E’ importante per noi prendere atto sempre di ciò perché c’è tanta competizione e tanti gruppi cercano di accaparrarsi fette della nostra audience. La competizione è positiva, è un’interessante sfida. E’ sempre stimolante e ti impedisce di rilassarti e pensare di essere il migliore e intoccabile.

Come riesci a conciliare i due aspetti di Rob Halford: in tuta da ginnastica per la maggioranza del tempo fuori dal palco e invece ricoperto di borchie e pelle sul lavoro?

Rob – L’immagine è molto importante. Io ho quasi trentaquattro anni, l’HM è la mia professione, voglio essere il meglio possibile in essa, ma questo non vuol dire che debba andare a letto con il pigiama di pelle. Il metal è nella mia testa, in me, ma l’immagine a volte è scomoda. Io cerco di accontentare la gente, da questo punto di vista, cercando di vestirmi come si aspettano che io faccia. Ecco perché in questo progetto Hear’n’Aid sono vestito come sul palco. Cosa direbbero i miei fan se mi presentassi in jeans e maglietta?

Intervista e foto di Piergiorgio Brunelli.

Servizio a cura di Stefano “Steven Rich” Ricetti