Live Report: The Darkness+Dea Matrone @ Alcatraz, Milano – 16/10/2025

Testo di Vittorio Cafiero – Photo Gallery di Luna La Chimia.
Dea Matrona
Alle 20 circa l’Alcatraz è ancora poco affollato: forse la serata infrasettimanale, forse il fatto che i The Darkness passino spesso da queste parti o che il tour italiano conti ben tre date fa sì che la platea sia ancora in fase “riscaldamento”. In questo contesto i Dea Matrona salgono sul palco con una certa tranquillità e umiltà.
Il combo irlandese di Belfast, guidato da Orláith Forsythe e Mollie McGinn, ha una storia che parte dal busking, da performance improvvisate in strada e già questa sera mostra la versatilità che li contraddistingue: entrambe le ragazze alternano voce, chitarra e basso, scambiandosi strumenti e ruoli, mentre sono accompagnate da un batterista e un quarto musicista a supporto delle corde.
Musicalmente si muovono su un rock che nei primi pezzi è relativamente leggero, quasi “pulito”, con influenze blues-rock e un gusto melodico che richiama atmosfere anni Ottanta e inizio Novanta. Gradualmente si fanno più ruvidi: il terzo brano alza il livello di intensità e la band mostra di sapersi muovere con disinvoltura anche in territori più rock. Il pubblico – che ancora sta raggiungendo la sala, ordina birre, scambia chiacchiere – è accogliente ma non pienamente “in partita”: l’attitudine tipica di una venue che ancora non è al massimo della concentrazione.
Un momento interessante è la pausa in cui le due musiciste raccontano come si siano conosciute: c’era un solo posto a disposizione in una gara di canto scolastica, e per forza sono state messe insieme, dando inizio al tutto. Dettagli come questo rafforzano l’autenticità della proposta. A metà set, il ritorno al folk/elettro-acustico spezza il ritmo e mostra un lato più intimo della band. Chiudono con un up-tempo convincente, (“Red Button”) e lasciano il palco con discreta energia. In conclusione: i Dea Matrona confermano il loro potenziale e il loro talento, ma forse la grande dimensione dell’Alcatraz e un pubblico non ancora completamente caricato non hanno favorito al massimo l’emersione della loro verve. Resta comunque un’ottima prova d’apertura, e si può scommettere che cresceranno ancora.
Dea Matrona setlist:
Hate That I Care
Stuck on You
Magic Spell
Oh Well (Fleetwood Mac cover)
Black Rain
So Damn Dangerous
Glory, Glory (I Am Free)
Red Button
The Darkness
Con l’ingresso della band britannica sul palco, l’atmosfera della serata subisce una trasformazione quasi palpabile. L’Alcatraz è ora ben più di un semplice locale: è uno spazio di attesa carica, pronto a esplodere. Il pubblico, composto per la maggior parte da fan adulti ma con una presenza femminile significativa e una certa varietà generazionale, è visibilmente in modalità “serata da divertimento”, abbandonando ogni formalità per un rituale rock-n-roll. Lo show parte con un’introduzione a tinte folk, quasi ironica, che funge da preludio perfetto al primo brano – un’apertura fulminante con “Rock And Roll Party Cowboy” che lancia subito il messaggio: niente fronzoli inutili, solo chitarre, voce e groove. Il brano mette in chiaro, fin dal primo accordo, che qui si è venuti per “fare festa” ma con stile: la band sa di essere in forma e sa che il pubblico vuole vedersi riflesso nel divertimento.
Successivamente, con “Growing On Me”, il gruppo abbassa lievemente la velocità ma non l’intensità: si percepiscono gli anni di carriera, la padronanza del palco e la capacità di modulare energia e melodia. Justin Hawkins raccoglie le rose lanciate dal pubblico — piccolo gesto che crea sintonia e partecipazione — e cerca una connessione più personale, quasi poetica. Il tentativo di “fare poesia” è forse un po’ sopra le righe, ma la sincerità lo rende irresistibile.
Arrivati a “Get Your Hands Off My Woman”, lo show entra ufficialmente nella sua fase centrale: Justin si lancia in falsetti ancora più alti che sulla registrazione in studio, prendendo letteralmente il controllo della scena. L’interazione col pubblico cresce: battiti di mani, cori…Il brano contiene tutti gli elementi che hanno reso la band un riferimento nel glam-rock: ritornelli orecchiabili, chitarre martellanti, performance vocale sublime.
È interessante notare la presenza a supporto di un quinto musicista, “Softy”, che si muove tra chitarra e tastiere: un elemento che arricchisce dal vivo la performance rispetto al setup standard e permette una certa complessità sonora senza perdere la semplicità dello show.
Con brani come “Motorheart” e “Barbarian”, la band dà il suo lato “virtuoso”: Rufus Taylor alla batteria appare davvero instancabil, e Justin alterna assoli di chitarra (anche slide) con pose sceniche che pescano dal migliore glam-rock classico. In “Barbarian” si avverte un attacco epico, quasi cinematografico, che strappa applausi e urla. Non è solo una band che suona: è una band che sa “mettere in scena”.
Quando arriva “Love Is Only A Feeling”, il boato della sala è la prova che i classici funzionano ancora. Il pubblico li riconosce, li vuole, li canta. È in quel momento che la serata assume la dimensione di “evento”, non solo di concerto: la band e il pubblico entrano in simbiosi. Questo momento sancisce anche la forza d’attrazione della band: nonostante i cambi di tempo, i nuovi brani, l’esperienza consolidata, quello che conta è lo stare insieme, la festa collettiva.
La performance prosegue con “Givin’ Up”, in cui Justin appare a torso nudo, carico come un frontman che vive per questi momenti. Il pubblico risponde agli stimoli, si muove, canta, si lascia andare. Il bello è che, pur con un repertorio che guarda anche avanti (con pezzi del nuovo album “Dreams On Toast”, uscito nel marzo 2025 e accolto bene dalla critica), la band non dimentica le radici: i classici ci sono, la magia pure.
Poi arriva il momento più “giocoso e collettivo”: “Fat Bottomed Girls” (cover dei Queen), cantata da tutti. È un momento liberatorio, senza filtri, dove il palco e la sala diventano un’unica cosa. La condivisione è totale.
Arrivando verso il gran finale, con “Japanese Prisoner Of Love” l’atmosfera cambia leggermente registro: più pesante, con un attacco massiccio che ricorda come questa band sappia anche essere dura quando serve. Poi con “I Believe In A Thing Called Love”, il classico per eccellenza: quando Justin chiede di mettere giù gli smartphone e si vede ancora qualche telefono alzato, è quasi una nota tragicomica, ma la verve della band spazza via ogni minima distrazione. Il pezzo esplode, il pubblico è pienamente dentro.
L’encore chiude la serata con “One Way Ticket” e “I Hate Myself” — scelta perfetta: una miscela di festa, ironia, virtuosismo, una vera e propria dichiarazione d’intenti. Il concerto non è stato solo un “best of”, ma una celebrazione di un’attitudine.
In termini tecnici lo show ha mostrato maturità: suono preciso, bilanciato, con la band compatta e serena. Il look di Justin – in stile Dylan meets glam – ha confermato che la performance non è solo musicale ma visiva e scenica.
I The Darkness nella serata milanese hanno confermato di essere una delle live-band più solide del momento: riescono a coniugare divertimento, tecnica, repertorio e presenza scenica con naturalezza. E lo fanno senza perdere la loro ironia e la gioia di suonare.
The Darkness tracklist:
Rock and Roll Party Cowboy
Growing on Me
Get Your Hands Off My Woman
Mortal Dread
Motorheart
Walking Through Fire
Barbarian
Love Is Only a Feeling
Givin’ Up
My Only (Rufus Tiger Taylor alla voce)
The Power of Love (Jennifer Rush cover)
Heart Explodes
The Longest Kiss
Friday Night
Fat Bottomed Girls (Queen cover)
Japanese Prisoner of Love
I Believe in a Thing Called Love
Encore:
One Way Ticket
I Hate Myself
Vittorio Cafiero