Morbid Angel live – report data di Roma

Di Alberto Fittarelli - 11 Marzo 2004 - 0:47
Morbid Angel live – report data di Roma

Morbid Angel + Krisiun – 3 Marzo 2004 – Roma – Horus Club

 

Articolo di Emilio Sonno

 

Consapevole di non poter, ormai, più assistere alle performance live di grandiose e seminali deathband quali Death, Carcass, Cynic, Atheist, Pestilence, Mourning Sign (vere e proprie glorie del passato, passate purtroppo tutte a miglior vita) e ancora nell’attesa di vedere all’opera mostri come Meshuggah, The Dillinger Escape Plan, Strapping Young Lad, Nile, Cryptopsy e chi più e ha più ne metta… ho pensato bene di consolare i miei dispiaceri con un bel concerto di puro death metal di, un altro storico caposaldo, “tali” Morbid Angel.

Era tanto che aspettavo di incontrarli dal vivo e di certo non potevo perdermi l’occasione di vederli suonare da queste parti: non capita tutti i giorni che sia la Montagna ad andare da Maometto!

Come a voler mettere alla prova la mia fedeltà, e quella dei numerosi fan, capitolini e non, diverse le vicissitudini pre-concerto: su tutte l’inatteso cambio di locale che in un primo tempo avrebbe dovuto essere il centralissimo Circolo degli Artisti, sostituito, una decina di giorni prima dell’evento, dal ben più periferico Horus Club (e qui uso l’articolo a scopo personale ringraziando Claudio senza il quale non stareste leggendo questo report: “Grazie!”; anche se non si tratta dell’unica persona che dovrei ringraziare…)

Vicende personali a parte, una volta giunto sul posto noto subito un’atmosfera insolitamente quieta, come a presagire l’imminente tempesta di blastbeat che da lì a poco si sarebbe abbattuta sui, tutt’altro che ignari, spettatori.

Nonostante tutto l’attesa non è poi così snervante grazie pure ad un’apertura dei cancelli in perfetto orario, se non addirittura in anticipo, che ci permette un ingresso in tutta calma. Le voci del sold-out delle prevendite sembrano confermate, e non c’è da stupirsi, dalla presenza di pubblico decisamente numeroso, anche se fortunatamente, nel locale si riesce a “passeggiare” con una certa facilità, raggiungendo senza particolari problemi addirittura le primissime file.

Il colpo d’occhio è comunque notevole: un orda di metallari vestiti rigorosamente di nero, carichi di merchandise di vario genere che discutono degli argomenti più disparati fino a quando si spengono le luci e nella sala cala il silenzio.

Sono le 21.15 precise e i Krisiun, apparentemente più svizzeri che brasiliani, salgono sul palco.

Il pubblico sembra accoglierli calorosamente, ma forse non li conosce abbastanza bene perché chi ha già avuto il (dis)piacere di ascoltati attraverso lo stereo avrà notato il loro essere soltanto l’ennesimo gruppo clone, per cui inutile, di Decide e Morbid Angel; tuttavia – penso tra me e me – chissà che ascoltandoli dal vivo regalino maggiori emozioni (di meno sarebbe alquanto improbabile) specie se sono veritieri i giudizi che li vorrebbero animali da palco veramente distruttivi.

L’ipertatuato trio inizia quindi a suonare i primi brani, uno di seguito all’altro, uno simile all’altro, pescati qua e la dalle loro non poche release: da subito si nota la palese limitatezza di soluzioni dovuta alla presenza di una sola chitarra (in sede live il fenomeno è ancor più evidente) che talvolta riesce ad essere sopperita da un energico drumming e una voce, quella del cantante/bassista Alex Camargo, abbastanza potente. I pezzi si susseguono con fredda meccanicità e qualcuno inizia già a pensare ad altro. Sorvolando sull’acustica del locale affatto ottima, quello che non li aiuta assolutamente è una presenza scenica prossima allo zero: non troppo coinvolti né coinvolgenti i Krisiun non riescono proprio a far propagare l’entusiasmo oltre le prime file.

 

     

Difficile ricordarsi, anche per il più patito dei fan, tutte le canzoni vista la loro estrema somiglianza; è Vengeances Revelation, una delle poche che riesco nell’ardua impresa di riconoscere, tratta da Apocalyptic Revelation, l’album mezzano (termine, quest’ultimo, interpretabile anche in senso figurato) della loro consistente discografia: una song “senza infamia e senza lode”, come d’altronde le restanti.

I tre verdeoro, capiamoci, non risultano particolarmente deficitari di capacità compositive, perché i riff e strutture sono simili a quelli di tanti altri gruppi affini (anche troppo!) eppure essi rimangono eccessivamente scollati e fini a se stessi, privi di una naturale soluzione di continuità; il loro sound, per quanto possente risulta decisamente piatto e incolore, ma il difetto più evidente è da ricercarsi in una clamorosa mancanza di mordente che, dopo l’impatto iniziale, lascia il pubblico piuttosto deluso.

Quello che, purtroppo, manca al combo di Max and Moyses Kolesne è proprio quella marcia in più che aveva, invece, un’altra celeberrima coppia di fratelli (batterista e chitarrista anch’essi), peraltro loro connazionali: Igor e Max Cavalera i quali esprimevano, proprio negli anni della nascita dei Krisiun, tutta la loro essenza distruttiva con un death di cui i nostri sembrano aver ereditato assai poco.

Si procede così, senza sosta alcuna, tra bacchette in costante movimento, chitarre fischianti e “urlacci” a iosa, attraverso canzoni vacue, povere di contenuti nonostante l’esecuzione sia oggettivamente onesta: trovano spazio pure un assolo di batteria, dove Max riesce quasi a convincere, e subito dopo un breve solo di chitarra di Moyses, come per rispondere al piacevole monologo del fratello.

Gli altri momenti culmine della serata vengono raggiunti con irripetibili espressioni gratuite, di carattere chiaramente blasfemo, e indubbiamente non troppo gradite nell’adiacente Città del Vaticano, accompagnate poi da immancabili e scontati elogi all’Italia e a Roma.

Dopo la bellezza di 50 minuti esatti (e qui i tre carioca si riconfermano davvero svizzeri in quanto a precisione) la band si eclissa senza troppi rimpianti, riuscendo nell’ardua impresa di non convincere neanche a tu per tu.

Divertente, l’aver trovato, adesso, a distanza di qualche anno, una vecchia intervista in cui Alex Camargo sosteneva: “Non c’è spazio per i poser in questa scena, e solo le bands oneste sono destinate a durare” e ancora: “Il movimento death non è mai morto! Più che altro è rientrato nell’underground dopo un periodo di sovraesposizione, anche a causa di una serie di band mediocri che hanno decisamente contribuito ad inflazionare la scena”… sagge parole, caro mio, davvero sagge. Ci sarebbe, infatti, proprio bisogno che qualcuno andasse a scambiare due paroline con i dirigenti della Century Media!

A parte le mie vagonate di inguaribile cinismo, ritorniamo a noi, passando ora alla fase calda della serata.

L’algida prova della sideband sta difatti per essere completamente cancellata dalla mente dei presenti con una dose letale di autentico death metal: si fanno desiderare un po’ i quattro floridiani prima di fare la loro comparsa.

Tra i sottofondi musicali più disparati che fanno da cuscinetto negl’intermezzi, si assiste al collaudo dell’invidiabile drumkit di Pete Sandoval e all’accordatura dell’intera strumentazione, con tanto di tecnico che fissa a terra, con del nastro adesivo, le pedaliere che di lì a poco saranno calpestate dall’impareggiabile Trey Azagthoth: il tutto in un clima di frenetica attesa che sadicamente sto cercando di farvi rivivere in questo report.

Passano una ventina di minuti abbondanti prima che il neo-ritornato Stephen “Steve” Tucker faccia capoccella dal buio più completo con il suo lucente B.C.Rich, color cremesi, assieme al resto del combo che si dispone  subito ai propri posti di combattimento. Tarda leggermente ad entrare solo Trey, la vera star dello show, e quando lo fa ha già i capelli davanti al viso, un completo nero formato da una semplice maglietta scura, un paio di pantaloni in pelle con tanto di laccetti, delle (intonatissime?) scarpe da ginnastica bianche e la rosso fiammante B.C.Rich già imbracciata.

 

       

 

L’immagine che ho di fronte, in quel momento, è incredibilmente simile a quella della foto che lo raffigura nel booklet del lontanissimo album d’esordio: egli sembra uscito direttamente dalla macchina del tempo e solo qualche grinza di troppo sulle mani rivela la sua vera età.

In un tripudio di Marshall è la batteria che rompe gli indugi subito seguita dal resto della compagnia. L’Angelo Morboso ha iniziato a volteggiare nella sala ammorbando tutti con le note della stupenda Day of Suffering, l’unica tra le tracce di Blessed are the Sick che questa sera verranno riproposte.

Subito Trey si rivela vero istrione della serata, dando riprova di non aver mai perso il suo incredibile smalto, giocando, con consueta maestria, con la ruggente sei corde.

La mia posizione non mi agevola molto nel compito di valutare il nuovo membro della formazione, l’altro chitarrista (del quale ammetto di non conoscere il nome!) che inoltre si deve accontentare di un livello di volume ovviamente più basso di quello del suo bandmate; vicenda che in parte condizionerà il risultato generale, ma comunque la sua prova appare decisamente buona.

Nella pausa seguente Within Thy Enemy, la prima tra le tracce scelte dal recentissimo Heretic, Steve incita un pubblico già in visibilio continuando a ripetere “Roma are you ready for some pain?” prima di proseguire giustamente con Pain Divine e scatenare, come già in precedenza, un pogo che mobilita gran parte dei presenti, e che proseguirà, con saltuarie interruzioni fino a fine concerto.

 

       

 

Un’inossidabile Pete Sandoval, veramente in grande spolvero, detta con potenza e precisione i tempi, ora lenti ora veloci, delle diverse canzoni, non fermandosi un attimo, tanto che pure nelle fasi meno sparate, i suoi polpacci non smettono mai di fare su e giù.

L’unico appunto che potrebbe essere fatto riguarda il loro immobilismo sul palco, ad eccezione del nuovo elemento: ovviamente non siamo ad un concerto dei Manowar e non è la circostanza nella quale aspettarsi una chissà quale azione, eppure lecito sarebbe attendersi almeno un po’ più di movimento; ma i MA non sono dello stesso avviso preferendo supplire a questa marginale lacuna con un impegno musicale davvero lodevole, generando un sound privo di particolari sbavature, brutale e tagliente come pochi.

La scaletta, che a dire il vero è quasi identica a quella della precedente data milanese, se non fosse per il fatto che è più corta, prosegue con fulgide perle quali Beneath the Hollow, la ferale Curse the Flesh, (estratte entrambe da Heretic) dove, tanto per cambiare, l’irrefrenabile Trey non guarda mai in avanti, lasciando il viso perennemente coperta dai suoi lunghi capelli scuri.

L’entusiasmo è alle stelle e non accenna a diminuire quando gli headliner ritirano fuori dal cilindro episodi più datati come Where the Slime Live, capaci comunque di smuovere anche i più giovani, con chitarre speedy al vetriolo, oppure pezzi provenienti dagli ultimi album con quei riff lenti e paranoici dall’azione “scartavetrante”, pesanti quanto può essere uno schiacciasassi, in grado di annichilire con un’imponenza che non trova pari nel suo genere.

Netta, si avverte, la differenza tra song nuove e vecchie, con la band neanche troppo preoccupata di ricucire lo strappo stilistico, consapevole di dare così maggior varietà ad uno show che rischierebbe altrimenti di non travolgere totalmente i meno affezionati.

Qualche break di tanto in tanto per cambiare strumenti e rifiatare un attimo, prima di rituffarsi a capofitto nell’esecuzione di altre composizione assassine. In più di un’occasione Trey cambia la sua bella IronBird con l’Ibanez a 7 corde, spettacolarizzando ulteriormente una performance, la sua, ineccepibile sotto ogni, benché minimo, aspetto: più preciso persino di una macchina, e più talentuoso di un normale essere umano, oggi sembra voler conquistare a tutti i costi il titolo di dio della chitarra non fermando mai le sue snelle dita e lasciandole danzare con ineguagliabile fascino su una tastiera nelle sue mani sembra anche troppo piccola.

Chambers of Dis, Bil Ur-Sag e ancora Dawn of the Angry massacrano i fragili timpani degl’insaziabili fan, rapiti dalle corde vocali di un Tucker in ottima forma (buona, manco a dirsi, pure la padronanza del suo bel basso) che passa, altresì, alcuni momenti chiacchierando con la folla, spronandola come se ce ne fosse ancora bisogno, a cavallo dei diversi strumentali che si interpongono tra un blocco di canzoni e un altro.

Il tempo non ha dimensione, sembra essersi fermato, lasciando tutto sospeso in una dimensione surreale, parallela, distorta, dove tutto è così dannatamente contagioso!

I cori che intonano a gran voce “Morbid Angel, Morbid Angel…” sono costantemente nell’aria, come quelli che inneggiano Azagthoth o gli altri componenti del formidabile 4piece americano: non è infatti solamente l’ugola del singer ad urlare ma anche il pubblico che reclamando una song piuttosto che un’altra, non perde occasione per lanciare coinvolgenti coretti con i quali accompagnare il terremoto sonoro in corso.

Ma come ogni piacevolezza è destinata a terminare, allo stesso modo, non sono neanche le 24.00 quando, dopo circa 80/90 minuti la musica finisce: i Morbid Angel salutano tutti ed escono di scena dopo un finale a totale appannaggio Altars of Madness, con le classiche e immortali Lord of All Fevers & Plague e Chapel of Ghouls. Subito gli addetti si occupano di sistemare il palco, lasciando che i fan, ancora sotto effetto, si sgolino alla ricerca di un souvenir qualsiasi, sia esso anche soltanto il foglio con la tracklist della serata.

Così proprio quando il locale inizia lentamente a svuotarsi, compare a sorpresa Trey che saluta i presenti, i più fortunati con una stretta di mano, lasciando poi il testimone all’altro guitarist, che dopo qualche manifestazione di affetto, rientra anch’egli nel backstage.

Mentre si inizia effettivamente a defluire, ho modo di notare come i M.A. abbiano soddisfatto tutti, accontentando anche quella fetta di pubblico fortemente affezionata al mitico David Vincent e che ad inizio concerto non avrebbe scommesso sull’incredibile riuscita dello stesso; di mio rimango solo un po’ deluso per la mancanza di episodi provenienti da un album che personalmente adoro come Gateways to Annihilation, tolta la slplendida Ageless, Still I Am; se la scaletta fosse stata più lunga forse avrebbero trovato il loro spazio assieme a tante altre… ma d’altronde si parla di sottigliezze.

Dispiace giusto per la scialba prova dei Krisiun, indubbiamente bravi a livello strumentistico, ma troppo poco seducenti. Tutt’altra cosa Trey e soci che, com’era prevedibile, hanno costruito un irreprensibile spettacolo, massiccio, compatto e coinvolgente, fulgido esempio di come il death sia, più che mai, vivo e vegeto, quando suonato da chi ne sa esaltare a dovere le caratteristiche: semplicemente irresistibili.

Un report, in fin dei conti, che si sarebbe potuto scrivere prima ancora di partecipare all’evento, poiché i Morbid Angel continuano a rappresentare, fortunatamente, ancora dopo tanti anni, un affidabile marchio di garanzia, uno dei pochi punti fissi, verso cui poter sempre fare riferimento in un universo in perenne movimento.

Emilio “ARMiF3R” Sonno

 

 

Setlist del concerto:
1. Day of Suffering
2. Within Thy Enemy
3. Pain Divine
4. Beneath the Hollow
5. Curse the Flesh
6. Chambers of Dis
7. Where the Slime Live
8.
Bil Ur-Sag
9.
Dawn of the Angry
10. World of Shit (The Promised Land)
11. Ageless, Still I Am
12. Lord of All Fevers & Plague
13.
Chapel of Ghouls