Recensione:

Un credibile esempio di hard rock classico. Nel vero senso del termine.
Quello per intenderci, che si approssima allo stile di Rainbow, Deep Purple, Whitesnake, Black Sabbath, Dio ed Uriah Heep.
Roba vecchia nello stile, certo. Ma sempre con un’anima viva, scalciante e – come capita nei casi affini a questi Sign of the Wolf – decisamente bella da scoprire ed ascoltare.
Una piacevole sorpresa insomma, tipica di un sottobosco musicale che in mezzo a tanto ciarpame e gruppi sopravvalutati riesce anche ad offrire qualcosa di qualità tangibile.
I Sign of the Wolf in realtà sono un accrocchio di ottimi musicisti identificabile con la definizione di supergruppo. Un tipo di progetto che andava molto di moda un paio di decenni addietro, ma che ancora oggi – vengono in mente Black Country Communion e Dead Daisies – ha un ruolo significativo nel panorama musicale.
Sono tanti infatti, i volti conosciuti che si agitano tra le note delle canzoni. Doug Aldrich (ex Whitesnake e guarda caso, oggi proprio con i Dead Daisies) è una garanzia assoluta. Assieme a Steve Morris (chitarra degli Heartland, ma pure attivo con Ian Gillian, Shadowman, Newman e parecchi altri) e Frederik Folkare (Eclipse e Nordic Union) forma un trio di grandi professionisti della sei corde. Chuck Wright e Mark Boals al basso, cui si aggiungono alcuni famosissimi interpreti della batteria come Vinny Apice, Josh Devine e Johan Kullberg incrementano ulteriormente il tasso tecnico. A chiudere il cerchio, Mark Mangold e Tony Carey alle tastiere.
Tantissima roba, tanto più quando al microfono troviamo un ottima ugola come quella di Andrew Freeman, singer che con i Last in Line ha provveduto qualche anno fa a rendere pieno omaggio ad un totem assoluto come Ronnie James Dio.
Quello che deriva dalla miscela di artisti coinvolti, tutti in qualche modo esperti di suoni “classici”, è intuibile ed alla portata di chiunque mastichi un po’ il genere.
Proprio quel rock talora epico e scavato, risoluto e fascinoso che è stato patrimonio delle grandi band citate all’inizio.
L’idea di ascoltare un lavoro decisamente di buona qualità si materializza sin da subito, all’ascolto delle note torrenziali della opener “The Last Unicorn”. Un pezzo di discreta lunghezza che si avvita su atmosfere dense e dal sapore Blackmoriano.
Ma è proprio la vecchia scuola del rock duro a svettare dalle note di “Sign of the Wolf”, giacché la presenza di Aldrich e l’assonanza con Bad Moon Rising e Whitesnake è una costante che si manifesta molto spesso lungo la scaletta, sorprendendo per l’ottimo valore di composizioni mai banali seppur classicissime.
Pur rimanendo sempre ancorato ad elementi della tradizione, il disco presenta oltretutto una buona varietà di atmosfere, passando dal ruvidissimo ed acceso hard rock di “Arbeit Macht Frei”, alle ambientazioni sulfuree di “Rage of Angels”. Senza tralasciare le soluzioni easy di “Murder at Midnight” e “Still Me”. I soliti Whitesnake compaiono poi con particolare nitidezza nella piacevolissima “Bouncing Betty”, pezzo in cui mr. Aldrich ricorda nuovamente a tutti perché fu scelto, ai tempi, come sostituto di John Sykes.
Chiude l’album la programmatica “Sign of the Wolf”, pezzo piuttosto lungo che si presenta come un magistrale riassunto dell’arsenale in forza al gruppo da cui prende il nome.
Epica, ruggente e passionale, è una canzone memore ancora una volta dell’accoppiata Dio/Rainbow che ben riassume la bontà di un progetto che convince e cresce ad ogni ascolto.
Old school hard rock, plasmato alla grandissima, con forza e passione.
Soprattutto, interpretato magistralmente da un nucleo di artisti che ha fattivamente contribuito alla costruzione della sua storia leggendaria.