Recensione: A History of Nomadic Behavior

Di Matteo Pedretti - 13 Marzo 2021 - 5:00
A History of Nomadic Behavior
Band: Eyehategod
Genere: Sludge 
Anno: 2021
Nazione:
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La localizzazione geografica e il contesto culturale sono fattori da sempre in grado di esercitare un’influenza determinante sull’arte, almeno su quella con la A maiuscola. Un esempio ne è New Orleans, crocevia tra cultura nordamericana, europea, creola e pratiche vudù, che ha dato i natali al Jazz e un contributo fondamentale, insieme a tutta l’area del Mississippi, allo sviluppo del Blues. Sul finire degli anni Ottanta la città ha saputo ancora una volta trasporre in musica la propria vocazione alla contaminazione favorendo la giusta combinazione delle condizioni che hanno determinato il sorgere dello Sludge: un sottogenere del Metal estremo e fangoso che fonde Doom e Hardcore Punk, spesso con l’aggiunta di elementi Blues e Southern Rock.

Tra i pionieri di questo stile, almeno nella sua accezione più pura, sono da annoverare i Crowbar, i Soilent Green, gli Acid Bath e quelli che ne sono probabilmente gli interpreti più rappresentativi: gli Eyehategod. Questi ultimi si formano a New Orleans nel 1988 e sin da subito mettono a punto un sound risultante dall’accostamento tra il riffing lento e pesante di Saint Vitus e The Obsessed e sfuriate Hardcore, con influenze derivanti dai Black Flag, dai primissimi Melvins di “Gluey Porch Treatments” e dal Southern Rock. I vocalizzi aggressivi e schizofrenici di Mike IX Williams raccontano di disagio, dipendenze, degrado, emarginazione, rabbia, senza esimersi dall’affrontare tematiche sociali, ma mai da una prospettiva politica.

Sebbene possano vantare una storia ultra trentennale, gli Eyehategod hanno all’attivo solo sei full lenght (compreso l’ultimo). Il numero limitato di realease riflette l’instabilità dei componenti della band e in particolare quella di Mike Williams, la cui vita è stata segnata da dipendenze da alcol e droghe, problemi mentali ed emarginazione. Nel 2016, ad aggravare ulteriormente la già precaria condizione del frontman, è intervenuto il suo ricovero in terapia intensiva a causa dell’acuirsi della cirrosi epatica da cui era affetto da tempo. La vicenda si è fortunatamente conclusa positivamente l’anno successivo, quando il vocalist è stato sottoposto a un trapianto di fegato.

Nel 2017 gli Eyehategod sono ripartiti dapprima con un tour triennale che li ha portati in giro per tutto il pianeta (compresi Paesi come Indonesia, Vietnam, Tasmania e Corea del Sud) e in seguito con la preparazione del nuovo album, un lavoro che riflette il caos e l’euforia della recente esperienza on the road così come i fatti della cronaca statunitense degli ultimi 2 anni: dai tumulti di piazza conseguenti alle azioni di violenza delle forze dell’ordine nei confronti della popolazione afroamericana alle elezioni presidenziali fino al clima di terrore ingenerato dalla pandemia. Argomenti che, a detta dello stesso Williams, seppur non affrontati apertamente, giacciono a livello subliminale tra le righe delle liriche.

“A History of Nomadic Behavior” è uscito il 12 marzo su Century Media Records, confermando un sodalizio in essere dal 1992, quanto l’etichetta tedesca ristampò il disco d’esordio “In the Name of Suffering” per poi occuparsi di tutte le pubblicazioni successive.

Il nichilismo primordiale e l’urgenza giovanile che pervadevano e che hanno fatto grande (e ineguagliabile) l’empia tripletta degli anni Novanta – “In the Name of Suffering” (1990), “Take as Needed for Pain” (1993) e “Dopesick” (1996) – sono ora decisamente smorzati, ma il nuovo album sopperisce a tali carenze grazie alla maturità acquisita negli anni. Il concetto di “maturità” in ambito musicale assume significati polivalenti. In alcuni casi attiva processi di evoluzione stilistica in grado di distanziare, anche significativamente, una band dalle proprie radici (non necessariamente con esiti positivi). Agli Eyehategod non è accaduto nulla di ciò. La formazione della Louisiana continua a incanalare rabbia e disagio esistenziale in uno Sludge dissonante e melmoso. La maturità traguardata si evince piuttosto dalle complessità e dall’articolazione delle strutture dei brani, dalla proposizione di una quantità enorme di riff di ottimo livello e dalle frequenti discontinuità ritmiche.

Senza bisogno di alcuna intro, “Built Beneath the Lies” apre le danze sferzando rasoiate che vanno dritto al punto e chiariscono sin da subito il tenore di una proposta complessiva che, edificata su chitarra e basso ipersaturi e accordature downtuned, procede tra mid-tempo, rallentamenti, feedback dissonanti e un approccio vocale Hardcore, con ritmi mediamente più lenti che in passato. Pezzi come “Fake What’s Yours”, “Three Black Eyes”, “Anemic Robotic” e “The Day Felt Wrong” sono caratterizzati da un’impostazione fondamentalmente Doom che fa il paio con una sgraziata attitudine Punk e che soltanto in un’occasione (la seconda parte di “The Outer Banks”) concede spazio a veloci sfuriate Hardcore.

Vi sono poi passaggi come “Current Situation”, “High Risk Trigger” e “Circle of Nerves” in cui lo Sludge dei Nostri è caratterizzato da corposi riff dal pronunciato sapore Southern. Episodi più particolari sono “Smoker’s Piece”, un interludio strumentale bluesy, e “The Trial of Johnny Cancer” che, sotto l’immancabile patina di sudiciume, è essenzialmente brano un Southern Rock. La chiusura è affidata a “Every Thing, Every Day” la cui annichilente ripetitività ben restituisce il senso di monotonia psicotica che traspare dal titolo e che pervade le liriche del brano.

La registrazione e il missaggio ad opera di Sanford Parker (che oltre a essere un produttore e tecnico del suono molto quotato nel circuito Doom/Sludge statunitense, è cantante e chitarrista dei Buried At Sea, nonché compagno dello stesso Williams nel progetto Experimental/Industrial Metal Corrections House che ha all’attivo anche Scott Kelly dei Neurosis e Bruce Lamont degli Yakuza) e la produzione di James Whitten (che ha lavorato, tra gli altri, con Thou e Forming The Void) definiscono un suono denso e fangoso come le rive del Mississippi.

Il fatto che “A History of Nomadic Behavior” sia il secondo disco realizzato dagli Eyehategod negli ultimi 20 anni basta a fare di questa uscita una notizia… Se si aggiunge che questi 40 minuti scarsi di musica rappresentano un tassello che va a collocarsi alla perfezione nella discografia dei ragazzacci di New Orleans, i fan avranno certamente di che essere contenti. Ma è arrivato il momento di lasciare parlare la musica perché, come recita il motto impresso sulle t-shirt della band, “Amps speak louder than words”.

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