Recensione: Aggression Continuum

Di Daniele D'Adamo - 18 Giugno 2021 - 0:00
Aggression Continuum
90

Ed ecco l’undicesimo full-length dei Fear Factory, intitolato “Aggression Continuum”.

Tutto qui?

Scritto così parrebbe una frase banale, normale, noiosa, per un combo che ha letteralmente inventato un genere – l’incrocio fra death e industrial metal, a detta di chi scrive meglio cyber death metal – e che, quindi, non fa altro che proseguire nel tempo lasciando dietro di sé una scia discografica che trafigge i decenni. Così invece non è, giacché la storia dei Nostri è tribolatissima, fra continui cambi di formazioni, liti, cause in tribunale per i diritti di autore e chi più ne ha più ne metta. Tanto è vero che il disco è l’ultimo con il cantante fondatore, Burton C. Bell, presente in tutti gli LP ma stavolta deciso a esplorare nuove vie, come del resto aveva già lasciato intendere con il suo progetto solista Ascension Of The Watchers.

Nonostante ciò, essi non hanno mai smesso di esistere, almeno nella mente di colui che può essere considerato il mastermind, nemmeno nei momenti in cui egli era lontano dal gruppo: il geniale, formidabile chitarrista Dino Cazares, che a sua volta ha ideato un nuovo modo di approcciare allo strumento. Bassista all’occasione, come in questo caso, ma anche programmatore di batteria, vedasi “The Industrialist” del 2012. Nonché, qua e là, autore di pregevoli assoli (sic!).

L’epopea, allora, continua, propagandosi come un’infezione nell‘incipit cyberpunk di ‘Recode’. Il suono è immenso, potentissimo, devastante. Allo stesso tempo pulito, preciso al millesimo di secondo, impeccabile. Compaiono con insistenza le tastiere, una gradita novità non tanto per la loro presenza ma per la loro importanza. L’atmosfera generata dalla musica è impressionante nelle visioni di incommensurabili città del quarto millennio, oscurate eternamente da una cappa oscura che si condensa in piogge colossali, continue. E il dominio assoluto della Terra da parte delle macchine, ancora macchine, sempre macchine.

Lo straordinario riffing di Cazares, unico al Mondo, disegna strutture megagalattiche dalla robustezza estrema, progetta sino nei minimi particolari le suddette macchine, atte a configurare un lunghissimo periodo di tempo: l’Era della Cibernetica. A dispetto di ciò, come un ossimoro, esplodono clamorosi ritornelli iper-melodici che squarciano la cortina di ferro imposta dalla miriade di robot che infestano le lande terresti, per urlare la voglia di umanità. Linee vocali che solo e soltanto C. Bell ha saputo inventare e mantenere intatte sin dagli inizi (“Soul of a New Machine”, 1992). Harsh vocals, growling e voce pulita si sovrappongono senza interruzione di sorta sì da generare un’altra caratteristica peculiare del combo statunitense, anch’essa unica, irripetibile, impossibile da copiare. Assieme ai due, giova ricordare che il combo medesimo dà il meglio di sé, paradossalmente, quando a sedersi dietro alle pelli c’è un essere umano. Mike Heller, in questo caso, bravissimo a iterare pattern che paiono dettati da un microprocessore ma che invece possiedono un umore, un mood, un qualcosa che solo il cuore di una persona in carne e ossa riesce a dare in più rispetto a una drum-machine, seppure ben tarata.

Spaventosa la title-track, con le deflagrazioni atomiche di breakdown eiettati a iosa dalle sette corde di Cazares. La pressione sonora è abnorme ma talmente perfetta da non risultare fastidiosa per l’apparato acustico. Di nuovo le tastiere, che accompagnano C. Bell nei suoi refrain da mandare a perenne memoria.

Impressionanti. Stravolgenti. Imprevedibili.

Tre aggettivi che, forse, era da parecchio che non comparivano assieme in un lavoro dei Fear Factory. Con il meraviglioso esito di guastarsi senza pari le varie canzoni, consci che ciascuna di essa offrirà qualcosa di nuovo, di diverso, bandendo definitivamente il concetto di tedio. È sufficiente mezzo secondo di musica, insomma, per capire che si tratti di loro. Del loro stile, non ripetibile da nessuno che non siano loro stessi. Una qualità che dimostra la mostruosa qualità tecnico/artistica raggiunta da una delle più grandi band di metal estremo mai esistite. Non esistono difetti, non esistono pause, non esistono riempitivi; tutto è elevato alla massima potenza. Tutto è incredibilmente affascinante, tutto è assolutamente imperdibile. ‘Fuel Injected Suicide Machine’ è lì, per dimostrarlo. Sound massiccio come le Montagne Rocciose, inserti armonici da far rizzare i peli sulle braccia per la ridda di emozioni che riescono a trasmettere. Un’antitesi che solo e soltanto i Fear Factory sono riusciti a comporre con una simile intensità.

Inutile e dannoso descrivere gli altri episodi di “Aggression Continuum”. Inutile perché sono tutti immensi, dal punto di vista compositivo, giacché trattasi di songwriting eccelso. Dannoso perché rovina la sorpresa di una full-immesion immediata e definitiva nell’universo di un’Opera strepitosa.

Pazzeschi in tutto e per tutto.

Daniele “dani66” D’Adamo

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