Recensione: Anthology IV: The Tragedy of Nerak

Di Marco Migliorelli - 7 Maggio 2012 - 0:00
Anthology IV: The Tragedy of Nerak
Band: Akphaezya
Etichetta:
Genere:
Anno: 2012
Nazione:
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88

Se dovessimo inscenare un dramma sull’Originalità quali maschere condurremmo alla tenzone del confronto serrato? Probabilmente la Personalità ma senza scordare una sana Ispirazione, cara ai più Romantici. Altri, più devoti al rigore della forma, suggeriranno l’immancabile Tecnica. Altri ancora arriveranno a temperare la coturnata autorevolezza di quest’ultima tenendo fra le mani l’abito essenziale della Semplicità. Si trovi infine una Compagnia di attori, possibilmente di quelli erranti, non troppo irrigiditi dalle pretese del loro ruolo artistico/sociale e abbastanza innamorati da voler osare. Eccoli dunque, gli Akphaezya, a calcare l’emiciclo dei nostri padiglioni auricolari. Al coro viene sostituita la musica, eloquentemente a concretare un impasto variegato di idee il più intelligentemente possibile lontano da ogni rigore di genere ma senza l’improduttiva, soverchiante tendenza di voler sorprendere a tutti i costi. “The Tragedy of Nerak”, secondo album del gruppo avantgarde francese, è foriero di musica devota più alla sostanza che all’effimero effetto dello stupore. A dieci anni dalla formazione del gruppo, gli Akphaezya arrivano ad oggi con un demo e due solidissimi full-length, gestendo la loro presenza sul mercato musicale con discrezione e composizioni di notevole qualità. Alla nostrana Code666, affiliata alla credibilissima e acuta Aural Music, il merito di aver condotto a se questi ragazzi, orfani del primo contratto con la Ascendance, sotto la quale uscì nel 2008 il loro debut “Links from the Dead Trinity”.

“Anthology”. II e IV, campeggia innanzi alle titolature di entrambe i dischi; questo perché ogni album è parte narrativa di una storia, che non ci viene rivelata linearmente bensì a capitoli alternati. Nello specifico del loro ultimo lavoro, il nodo tragico è quello classico di un amore tanto sincero e forte quanto potentemente in grado di sollevare problematiche sociali e politiche, sovvertendo equilibri e regole di una società rigidamente strutturata.
Così leggiamo sul retro del curatissimo digisleeve dell’album:

An eleven tracks theater composed and performed by Akphaezya

Ad una trama classica, in linea con la strutturazione del disco in quattro atti (ciascuno di due scene-canzoni) comprensivi di Prologo ed Epilogo tipica della tragedia, fa eco una resa musicale la cui originalità è demandata a tecnica sapiente guidata da forte ispirazione e spesso dalla leggerezza di una disarmante quanto rigogliosa semplicità. Cosa significa avantgarde per gli Akphaezya? La libertà, mentale e quindi compositiva.
“The Tragedy of Nerak” è un disco libero in cui il progressivo, il gotico ed il black più raffinato e nitido (mai però artefatto!) si accompagnano alla malinconia classica del pianoforte (la cui acme è nel monologo strumentale di “Transe H.L.2”), così come alle divagazioni della chitarra acustica, in grado di lambire anche i lidi del rock flamenco, come nella lunga conclusiva “Harsh Verdict”.
Eppure ancora così non arriveremmo a comprendere la teoria tutta del loro sound.
E poi le voci: se nei brani lunghi -e ve ne son ben tre- si rincorrono nella mimesi di un dialogo serrato fra coro e protagonista, in quelli più brevi -piccole gemme fra i 3 e i 5 minuti- l’alternanza è ridotta e serrata su registri più marcati e meno sfumati. Valga lo stesso discorso per l’innegabile varietà che distingue le canzoni fra loro, senza minacciare di estraneità la scelta di strutturare come un concept teatrale l’opera.
Le voci, dicevamo…tante per esser figlie di un solo nome: Nehl Aëlin. Regina della compagnia. Cantante e tastierista la cui versatilità delinea l’orizzonte di un panorama vocale vasto: “Sophrosyne”, scena seconda, atto I. Cinque minuti esatti, memorabili: aperture melodiche di pianoforte e sfuriate black metal non lontane dalla siderale follia degli ultimi Arcturus. Qui Nehl duetta con sé stessa, screaming e clean vocals. Qui contende ad Angela Gossow, altrove come nella poliedrica “A Slow Vertigo” o nella ballata “Dystopia” (voce pura, pianoforte, violino e chitarra acustica) approda alle spiagge emozionali lambite dall’indimenticata ugola di Anneke van Giersbergen, ex The Gathering.
Quella della  Aëlin non è una voce in sé compiuta, ad esser più precisi è una voce “completa”. Completa nella sua versatilità e di questa pienamente consapevole, grazie all’intraprendenza e alla cura estrema che rivestono le linee vocali, spesso imprevedibili e sempre sostenute da un affiatamento strumentale privo di cali. Superbo il lavoro di missaggio che non sacrifica alla voce di Nehl, come si potrebbe pensare,  il contributo creativo degli altri membri del gruppo(incluso il basso).
Brillante. Voci, musica, l’insieme; tutto: compresa la cover art, che anche qui raggiunge l’eccellenza visiva accostando al fascino dei caratteri greci, una ripresa in chiave vagamente fumettistica e dai colori caldi della pittura vascolare della Grecia Antica.

Il segreto?
Gli Akphaezya giocano, ecco. Giocano con la musica. Questo pensiero, lezioso, attraversa la mente di chi si trova a scriverne. Giocano nella misura in cui si trasmette a chi ascolta il raffinato ludus della loro creatività. Giocano nella misura in cui “mercanteggiano” con umile e intraprendente ironia nella casbah dei generi musicali. Giocano con la musica per via di quella leggerezza che, senza minare credibilità ed entusiasmo nell’ascolto, permea anche i passaggi più serrati e aggressivi. Ecco anche il motivo per cui ho osato parlare della follia degli ultimi Arcturus. Non è citazione diretta la loro; non stiamo parlando di richiami circoscrivibili quanto di un’attitudine, di uno “spirito” col quale gli Akphaezya sono entrati in contatto, attivamente e re-attivamente dando fisionomia alla loro propria concezione di avantgarde.
Diversamente non si spiegherebbe come alla suddetta Sophrosyne possa seguire, spiazzante, “Utopya”: due volte differente al suo interno e con Nehl che dallo screaming del brano precedente passa qui a coretti ossessivi in cui le linee vocali si inseguono su toni giocosi; virtuose nel portare instancabilmente la voce a misurarsi con se stessa; e come ancora, subito dopo, “Ubrys” inizi in pieno stile doom… così diverso dall’attacco di Genesis più classicamente heavy e sincopato, quasi thrash, non fosse per il ritornello…
Si potrebbero raccontare così i 50 minuti di “The Tragedy of Nerak”, per salti imprevedibili, dileguando però in povere parole quanto con maggior ricchezza potrebbe invece donare la verginità di un primo ascolto; e soprattutto offuscando con un infondato sospetto di patchwork, il pregio dell’armonia e della compattezza del sound complessivo: un terreno ostico quando si approccia alla musica in modo così libero e caleidoscopico.
Un terreno conquistato coraggiosamente e rispetto al passato dell’eccellente debut, lasciando una sensazione netta (non però immediata) di maggior solidità complessiva.

Lascio quindi a tutti il piacere della scoperta e ai più ferrati il rinvenimento delle più gustose e disparate influenze musicali, con l’augurio che ciò avvenga in modo tanto appagante e chiaro quanto non troppo cerebrale.
Ludus, non era forse anche questo uno degli scopi sociali del teatro antico? Ludus. Virtuoso, capace ma – e deve esser chiaro-, mai fine a sé stesso; mai unicamente orientato verso il piacere del solo artista.
Eccola la coralità degli Akphaezya; una coralità che coinvolge l’attenzione e il cuore senza indirizzarli su due canali distinti. Qui l’imperativo del miglior teatro, tanto caro agli Antichi come alla migliore tradizione, viene felicemente ascoltato. Nella semioscurità dell’emiciclo, non v’è soluzione di continuità con l’universo del proscenio: il coinvolgimento è dato.
Mentre già nell’Epilogo, di suoni confusi, un pianoforte -forse-, accenna già alla melodia del capitolo successivo…o così vogliamo immaginare…

“The Tragedy of Nerak” ci insegna a non esser diffidenti verso quella musica che inizialmente porta con sé il dubbio. Il dubbio socratico, creativo, in cui l’ironia è a immagine della libertà creativa che spezza il vincolo dei generi e dei cliché non per il breve e viscerale gusto della rottura, ma in nome di quel Ludus che è poi da sempre sale della miglior musica. Da sempre. E – mi sento di dire-, nell’avantgarde, doverosamente.

Marco Migliorelli

Tracklist:

1.Prologos

(Act I: Spring)
2. Scene I: A Slow Vertigo…
3. SceneII: Sophrosyne

(Act II: Summer)
4. Scene I: Utopia
5. Scene II: Hùbris
6. Transe H.L. 2

(Act III: Genesis)
7. SceneI: Genesis
8. Scene II: Dystopia

(Act IV: Winter)
9. SceneI: Nemesis
10. Scene II: The Harsh Verdict

11. Epilogos

Durata: 51:53

Line-up:

Stephan H. : chitarre
Nehl Aëlin : voce, fisarmonica, tastiere
Loïc Moussaoui : batteria
Stephane Béguier : basso

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