Recensione: Back In 199X

Di Pasquale Ninni e Leonardo Ascatigno - 18 Febbraio 2021 - 8:30
Back In 199X
Band: Encoded
Etichetta: Autoprodotto
Genere: Death  Metalcore 
Anno: 2020
Nazione:
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45

Uno dei disturbi che può colpire l’uomo, ma senza la presunzione di voler entrare nel complicato mondo delle Scienze Neurologiche, è quello legato alla cattiva percezione del tempo che può essere generato da molti fattori e che sfocia in manifestazioni molteplici e talvolta incontrollate.

Il disorientamento temporale, banalmente, può essere innescato, però, anche da altri elementi che nulla hanno a che vedere con la scienza propriamente detta, ma che comunque lasciano il segno e abbandonano il soggetto in sospensione fino a quando non riesce a riseguire la giusta rotta segnata dalle lancette dell’orologio. Tra questi elementi di certo non possiamo menzionare l’ultima fatica musicale di Encoded intitolata ‘Back In 199X‘.

La band sarda muove i primi passi nel 2009, ma dal 2014 si rimodula nella formula “one band band” e si indirizza verso sonorità metalcore e alla musica elettronica sposando tematiche legate all’informatica, alla tecnologia, ai videogames e all’animazione giapponese. Da questa condizione nasce ‘Back In 199X‘, un Ep particolare, a partire dalla copertina, il cui ascolto, come accennato, riesce a spaesare l’ascoltatore. Infatti il disco si apre con ‘Back In The 90s‘ un brano che riporta letteralmente, per produzione, cantanto e suonato, direttamente nel passato, alle origini della scena Black Metal (quello della seconda ondata). Se il disco avesse seguito questo inizio ci troveremmo di certo al cospetto di un lavoro nostalgico e apprezzato dagli amanti del genere, però, contrariamente a quanto ci si aspetti, lo sviluppo approda verso melodie di atariana memoria con brani strumentali e digressioni che spostano la linea del tempo nel futuro, ma in un futuro ormai superato. Questo porta ‘Back In 199X‘ a non brillare per coerenza e coesione; sarebbe interessante ascoltare un prodotto di Emperor Wolf avente uno sviluppo organico e sempre coerente.

Tra i momenti più rappresentativi del disco citiamo ciò che segue.

Il primo brano apre il platter con un fill di batteria e una sfuriata simil Swedish death metal degli anni che furono (“The Gallery” Sound per intendere). Da subito si nota una forte defezione riguardo alla produzione e alla definizione dei suoni. La batteria è molto effettata con gli overheads molto pronunciati, ma senza corpo, i temi delle chitarre sono difficili da apprezzare, confusi e sovrapposti con volumi precari e per niente legati tra loro. Anche la scelta del timbro pare alquanto strana e di difficile comprensione. Di questo l’ascoltatore ne risente già dopo i primi minuti. La voce appare interessante soprattutto per il timbro e la resa sonora molto “dietro gli altri strumenti”. Sempre in chiave Swedish si ha quella sensazione claustrofobica decisamente azzeccata per un progetto del genere. La parte centrale è una sorta di evoluzione “C” strumentale che lascia intendere un odio della band nei confronti delle “parti di passaggio” tra le sezioni di un singolo brano.

L’attacco della successiva ‘These Cold Grey Walls‘ è decisamente inusuale. Qualcosa di mai ascoltato prima: tremolo picking estremo con tema elettronico in misolidio effetto “Videogame anni ‘90”.  Brani frastagliati come questo sfuggono alle innumerevoli regole musicali, non vi è più un centro focale. L’entusiasmo c’è ma forse non basta…

Il cantato è diventato Hardcore nel giro di poco, con relativi cori allegati. La parte centrale al minuto 02.00 (di dubbio gusto) è davvero una mossa azzardata e, strano a dirlo nel 2020, le chitarre soliste hanno seri problemi di intonazione. Problema, questo, che più in là si rivelerà catastrofico.

‘500N‘ in compenso sembra davvero uscita come colonna sonora dei Game targati Taito. Una strumentale completamente basata sull’elettronica dove i piatti della drum sono così dannatamente midi che il tutto funziona alla perfezione.

Per chi vi scrive il punto più basso dell’intero prodotto targato Encoded è dunque la strumentale ‘They Used To Live Underground‘. Un minuto al massimo dove un pianoforte digitale duetta con una lead guitar in un agghiacciante turbinio di note suonate (e registrate) nel peggiore dei modi conosciuti. Bending errati e scale pentatoniche con errori sui tempi e gli accenti che fanno chiedere il perché non si curi maggiormente l’aspetto tecnico a favore di un disco che poteva uscire un anno dopo, ma con risultati più soddisfacenti. Forse una scelta voluta per dimostrare l’attaccamento agli anni ’90, ma anche in quegli anni si usava “accordare” lo strumento. È decisamente approssimativo l’approccio della band in molti degli aspetti basilari per la buona riuscita di un disco.

’30cm Sharp Blade‘ è puro chaos, ma non sonoro purtroppo. Il chaos è derivante dall’insieme delle idee e parti musicali che tra loro non dialogano mai. Parti black che anticipano o posticipano dei break elettronici old style.

Un concept un po’ da rivedere (almeno in quanto a stesura), per certi versi ammirabile nelle sue intenzioni che purtroppo da sole non bastano.

A questo punto non ci resta che aspettare il prossimo lavoro di Encoded per capire bene verso quale direzione indirizzerà i suoi sforzi.

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