Recensione: Beyond What Eyes Can See

Formatisi piuttosto di recente (2020), gli Haxprocess non hanno perso poi molto tempo ad arrivare a stampare il loro secondo full-length, “Beyond What Eyes Can See“, oggetto della presente recensione.
Ossequiosi alla nuova tendenza di certo death metal americano, che tende ad abbracciare forti spinte evoluzionistiche, scivolando così in quello che viene comunemente definito progressive death metal, i Nostri sfornano un disco formato da soltanto quattro brani, ciascuno della lunghezza attorno ai dieci minuti, per un ascolto che, per definizione, non può che essere completamente immersivo.
La questione tuttavia non è così semplice, poiché nell’album sono ricompresi echi di sludge e di doom, sì da definire un sound non particolarmente originale ma comunque ben delineato in tutti i suoi dettami stilistici. Per meglio dire, il combo di Jacksonville è riuscito a mantenere intatte le caratteristiche di base del death metal diluendole nel cupo viaggio che, partendo da “Where Even Stars Die“, arriva a “Sepulchral Void“. Facendo così, ha potuto allungare, se così si può dire, la propria foggia musicale potendola immaginare, quindi, come una forma solida larga e lunga ma non particolarmente spessa.
In tal modo il suono non raggiunge praticamente mai livelli esorbitanti di watt, semmai accontentandosi di inerpicarsi su qualche vetta grazie alla spinta dei blast-beats generati da Adam Robinson, presenti anch’essi ma non troppo. Quelli che sono più utilizzati, infatti, rimandano a decelerazioni declinanti negli slow-tempo nei mid-tempo che, sostanzialmente, la fanno da padroni per via del basso rombante di Davis Leader. Padroni tuttavia dalle connotazioni complesse, articolate. Tant’è che presumibilmente non ci sono più di dieci secondi in cui il drumming si soffermi su un dato pattern.
E questo appena citato è l’aspetto principale su cui si fonda l’LP, cioè una continua, insistita tendenza a non ripetere a lungo le sotto-sezioni del quartetto di suite, così da rendere l’LP stesso assai vario e dalla notevole longevità, almeno per chi ama questo tipo di sonorità. Come dire, insomma, che dentro ciascuna traccia siano presenti numerosi segmenti musicali, apparentemente slegati gli uni dagli altri. Cosa che non è, poiché lo sterminato lavoro delle chitarre cuciono decine e decine di riff tali da ingabbiare il suono in una ben definita direzione.
Certo, Lothar Mallea, uno degli axe-man ma soprattutto il cantante della formazione della Florida, cerca anche lui di addensare a sé la miriade di note che realizzano, come molecole, il corpo delle song. Il suo roco growling, classico nell’impostazione, lascia però numerosi spazi vuoti, in cui le song medesime diventano in pratica delle composizioni meramente strumentali. A proposito di sei corde, c’è pure da rilevare una buona dose di assoli sparsi qua e là nel platter, dovuta alla prestazione in coppia di Shane Williamson con il ridetto Mallea.
Sempre nel rispetto dello stile suonato, in “Beyond What Eyes Can See” regna con decisione la dissonanza. Un elemento che rende arduo il suo ascolto, tenuto conto delle tante disarmonie che spuntano come funghi sulla sua superficie. Nondimeno sono presenti due e solo due brevi istanti di morbida melodiosità, e più precisamente all’interno di “Thy Inner Demon Seed” e “Sepulchral Void“, con particolare riguardo per quest’ultima. Che, a parere di chi scrive, sarebbe il miglior compromesso fra cacofonia e orecchiabilità.
Tale ipotesi viene resa tangibile solo per pochi istanti, lasciando un po’ l’amaro in bocca per come avrebbe potuto essere “Beyond What Eyes Can See” se gli Haxprocess avessero pensato a qualche passaggio più… leggero. Così non è ma del resto fa parte della loro natura intrinseca, evidentemente centrata su obiettivi che si trovano nella parte più profonda e discordante dell’underground.
Daniele “dani66” D’Adamo