Recensione: Bittersweet
Con il secondo album “Bittersweet”, la giovane singer australiana Cassidy Paris mostra una evoluzione evidente sia dal punto di vista vocale che compositivo. Il disco si presenta come un lavoro ben costruito sul piano della produzione, dall’identità fortemente melodica ma con una vena rock grintosa che si riflette in brani energici quanto nelle ballad più riflessive. Il classico secondo album che non si limita a confermare, ma prova a rimettere in discussione i confini del personaggio Cassidy Paris, spingendola fuori dalla comfort zone del solo teen pop-rock per abbracciare un’identità più tangibile e concreta. Lo chiameremmo “album di transizione”, laddove con un termine sempre così ambiguo, si vuole intendere un passaggio verso una maturazione in divenire ma non ancora definitiva.
Come a dire che le pecche ci sono. Parimenti, esistono anche motivi di sicuro interesse a rendere valido un disco pensato per un pubblico potenzialmente ampio e “radiofonico”.
I riff di chitarra sono “catchy”, il ritornello resta facilmente in testa, e la tracklist è curata nel bilanciare episodi uptempo con momenti di introspezione più intima. La voce di Cassidy appare più sicura rispetto al debutto: sa graffiare nei pezzi più potenti e sa emozionare dove il mood si fa più personale. La presenza di collaboratori di rilievo come Paul Laine e Steve Brown contribuisce a dare spessore e varietà all’album, pur restando entro i confini di un AOR moderno aperto anche al pop-rock.
Le canzoni chiave del cd sono essenzialmente una manciata. “Butterfly” apre il disco come manifesto programmatico. Un mid‑tempo radiofonico a metà strada tra pop e rock. Le due anime, dichiarate e manifeste su cui si gioca l’intero universo di Cassidy Paris. Un’apparenza zuccherosa che vuole però conservare anche una certa ruvidità veicolata da esperienze di vita vissuta.
“Nothing Left To Lose” e “Finish What We Started” rappresentano proprio il versante più rock e determinato. Ritmi incalzanti, riff scolpiti e testi che ruotano intorno al non voler mollare il colpo con una base AOR che va a cercare affinità con suoni più contemporanei.
Infine, “Wannabe” e “Getting Better” si spostano più nettamente sul power‑pop. In particolare “Getting Better” condensa il tema centrale del disco, la resilienza: è il momento in cui il dolore smette di essere un vicolo cieco e diventa motore narrativo dichiarato.
Non mancano però alcune debolezze: la formula melodica, seppur efficace, talvolta si adagia su strutture già collaudate, rischiando di tralasciare la ricerca di una maggiore originalità. Qualche brano sembra più pensato per l’impatto immediato che per lasciare un segno duraturo e, in certi casi, la scrittura segue schemi prevedibili.
Tuttavia, nel suo complesso, “Bittersweet” è un album solido, con una sua coerenza e una personalità più marcata della prova di esordio.
L’impressione generale è di una giovane artista in crescita, desiderosa di affermarsi all’interno della scena melodic rock internazionale, con buone capacità tecniche e una sensibilità in evoluzione. Un disco consigliato a chi cerca nuove voci capaci di fondere energia e melodia senza perdere di vista il senso della contemporaneità musicale. Che magari non rompe del tutto con il passato pop‑rock, ma spinge con decisione verso una cifra più adulta e butta le basi per un potenziale, ulteriore sviluppo, maggiormente personale.
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