Recensione: Black Magick Rites

Di Matteo Pedretti - 19 Settembre 2021 - 9:00
Black Magick Rites
Band: Hour of 13
Genere: Doom 
Anno: 2021
Nazione:
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78

L’ormai quasi cinquantenne Chad Davis, originario di Granite Falls, Norh Carolina, è un personaggio con un forte interesse per l’esoterismo e l’occultismo e una figura alquanto misteriosa, ma una cosa è certa: è un musicista instancabile e poliedrico, come testimoniano gli innumerevoli progetti – stilisticamente anche assai diversi tra loro – che lo hanno visto o lo vedono tutt’ora coinvolto. Tra quelli in cui è attualmente impegnato, solo per citarne alcuni, c’è la sua Black Metal one man band Anu, gli Stench Of Evil, dediti al Death/Black/Crust, gli atmospheric blackster Obscurae e gli sludger californiani The Croocked Whispers.

Non c’è dubbio, però, che una delle sue principali passioni sia il Doom nella sua forma più pura e tradizionale, genere in cui si cimenta con The Sabbathian (in cui si occupa di tutto tranne che del microfono, lasciato alla norvegese Anette Gulbrandsen) e, soprattutto, con Hour Of 13 che, nonostante il percorso tortuoso e i cambi di line up, rimangono la sua creatura più prolifica.

La band esordisce nel 2007 con un self titled album che vede alla chitarra, al basso e alla batteria Davis e alla voce Phil Swanson, cantante di primo piano in ambito Doom/Heavy Metal attualmente impegnato con Briton Rites (leggi qui la recensione dell’ultimo “Occult Fantastique”), Vestal Claret e Seamount. Sin dagli inizi il rapporto tra i due è molto complicato, tanto che nel 2009 Swanson abbandona il gruppo per rientrare pochi mesi più tardi e incidere, sempre con la medesima formazione a due, “The Ritualist”. Ma le acque sembrano non essersi ancora calmate perché nel 2011 il vocalist statunitense molla nuovamente per far ritorno nel novembre dello stesso anno, lavorare con l’amico/nemico al terzo disco “333” e uscire nuovamente di scena – questa volta definitivamente – dopo la sua pubblicazione.

Rimasto solo, Chad porta avanti l’eredità del gruppo dapprima sotto i moniker di Night Magic e The Ritualist e poi, dal 2018, recuperando il nome originale (da allora anche Hour Of Thirteen) e pubblicando un paio di EP e, soprattutto, il quarto full lenght “Black Magick Rites”. La storia di questo album è quantomeno insolita: originariamente reso disponibile lo scorso 1 novembre per il download digitale per sole 24 ore, la Shadow Kingdom Records lo ha ora realizzato su supporto fisico (vinile, CD e cassetta).

“Black Magick Rites”, come suggerito dal titolo, è composto da sette rituali di Doom oscuro, maligno e sulfureo che, pur non essendo mai eccessivamente pesante da un punto di vista prettamente musicale, lo è invece nelle atmosfere cupe che lo caratterizzano. Se nei lavori precedenti l’influenza della NWOBHM era più evidente, qui è solo vagamente rintracciabile in qualche assolo di chitarra. In generale i nuovi brani hanno un passo molto lento e la loro struttura – pur rimanendo piuttosto semplice – è arricchita da riff, assoli, armonizzazioni e registri vocali decisamente azzeccati. Va inoltre aggiunto che lo stile vocale melodico ed evocativo di Chad Davis, a differenza di quello aspro e nasale dell’ex compagno, sconfina sovente nell’Occult Rock, rivelandosi molto adatto all’immaginario e all’estetica intrise di esoterismo degli Hour Of 13.

Sebbene in tutte le canzoni siano rintracciabili influenze di quei Doom e Proto Metal di fine anni ‘70/inizio ‘80, alcuni episodi si rifanno più marcatamente, ma sempre con piglio personale, a Black Sabbath e Pentagram come la title track, “Return from the Grave” e “Harvest Night”. Nell’apripista “His Majesty of the Wood” e in “Within the Pentagram”, accanto alla sempre presente componente Doom, emergono decise venature Occult, dal mood molto vicino a Blood Ceremony e Brimston Coven. Ci sono, infine, episodi che sortiscono l’effetto di stordire l’ascoltatore come “House of Death”, con la circolarità della sua sezione stumentale centrale, e la closer “The Mystical Hall of Dreams” che si sviluppa su riff pachidermici e ripetitivi e si fa notare anche per gli ottimi assoli di chitarra.

La prestazione di Chad è buona anche alla sezione ritmica, con un drumming solido e preciso e linee di basso che creano la profondità necessaria a questo tipo di proposta, veicolata da una produzione che centra pienamente l’obiettivo di ricreare un effetto da presa diretta, come nella migliore tradizione Seventies.

Se il tormentato connubio tra Davis e Swanson ha generato composizioni probabilmente più valide sotto il profilo compositivo e tecnico, rimasto solo il polistrumentista americano ha puntato soprattutto sulla componente atmosferica, dimostrandosi ancora una volta capace di creare sonorità che si insinuano sottopelle evocando sensazioni profonde e arcane, particolarmente indicate a un pubblico affascinato dal lato più riflessivo, profondo e oscuro del Metal.

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