Recensione: Classical
Uno dei più grandi chitarristi della storia dell’heavy metal. E anche uno dei meno considerati. Wolf Hoffmann è il responsabile principale di quel suono granitico e roccioso e ad un tempo stesso melodico e solare che ha reso leggendarie le canzoni degli Accept. Axeman dal suono unico e riconoscibilissimo, dotato di una straripante fantasia creativa e di un avvolgente quanto stravolgente stile, Hoffmann qui ci regala un disco intimista, melodico e ricercato. L’ex biondo chitarrista teutonico ci delizia con un album di riproposizioni classiche, undici incredibili tracce di raffinata contaminazione di suoni, un album interamente strumentale, distante dai canoni potenti e maliardi che hanno reso immortali gli Accept, ma ugualmente molto affascinante. Il chitarrista è accompagnato dal bassista Peter Baltes (Accept, Don Dokken), dal drummer Michael Cartellone (Damn Yankees) e dal grande tastierista Al Kooper.
Lo stesso suono che ci ha fatto sognare e godere ai tempi di Metal Heart c’introduce in un “Prelude” dal sapore orientale, una fragorosa attrazione degna di guidare un’ipotetica marcia di filosofi-soldati volti alla guerra santa. Entriamo a pieno nello spirito dell’opera con la celeberrima In the “Hall of the Mountain King” di Edvard Grieg, già rivisitata dai Savatage, nella quale un riff che potrebbe ricordare gli Ac/Dc o un Randy California più torrido ci guida lungo la linea madre del pezzo, dove Hoffmann lascia libero sfogo alle sue più egocentriche intenzioni solistiche, in un’accelerazione vorticosa e combattiva. Un toccante arpeggio sposta la nostra attenzione ad “Habanera”, che riprende El arreglito – primo atto della Carmen di Bizet – e qui davvero le parole potrebbero servirmi a poco per trasmettere l’emotività e l’intensità di queste fuggevoli, maestose quanto umili carezze sulle corde; ma è solo il momento iniziale, prima che la gloriosa elettrica di Hoffmann si abbandoni alle sue stridenti destrezze sopra il famoso filo conduttore, per una prestazione semplicemente straordinaria, capace di coniugare eleganti fraseggi, improvvise esplosioni di forza e ricami classicheggianti. La quarta traccia è “Arabian Dance”, tratta da The Nutcracker Suite Op. 71° di Tchaikovsky: un ritmo tribale che sorregge una chitarra incantatrice, una sei corde detentrice di arcani fascinosi misteri delle polverose distese arabe, dita passionali che scorrono lungo il manico per trasportarci lontano, il tutto ornato da continui, elusivi affluenti chitarristici dal suono più rabbioso e da evasivi coretti arabeggianti. “The Moldau”, del compositore ceco Bedrich Friedrich Smetana, lascia ampio spazio alla melodia e all’intimismo di Hoffmann, che si alterna all’elettrica e all’acustica, dando sfoggio di immensa grazia e di superiore feeling, tanto da ricordare i momenti migliori del maestro Michael Schenker: un episodio suadente, una confessione spirituale, un canto segreto e profondo. Un flavour pinkfloydiano funge da radiosa anteprima allo stupendo “Bolero” di Ravel, che nulla perde della sua originaria bellezza nelle dita del chitarrista tedesco; un suono cristallino e il celebre incedere scandito da arabeschi ora orientali ora del più stridente HM che s’insinuano prepotenti in diverse modulazioni, effetti cangianti che sembrano adesso baciare adesso picchiare il capolavoro di Maurice Ravel. Provate per un attimo ad immaginare Beethoven che incontra l’Eric Clapton più ispirato nell’ideale cornice del primo album dei Rainbow…difficile vero? Non tanto, basta ascoltare la splendida versione di “Per Elisa” esibita tra i solchi di questo lavoro di Wolf Hoffmann: un blues dolcissimo che spodesterebbe il miglior Orfeo. Un’esplosione di inaudito fragore ci riporta alla realtà, con l’ascia di Hoffmann che, guerresca, ci conduce nuovamente nelle memorie di Bizet, con la sua “Aragonaise”, dalla prima suite della Carmen; il nostro chitarrista qui è sugli scudi, elargendo potenza e classe da ogni nota, accompagnato da una ritmica anch’essa grave, e fregiata da percussioni spagnoleggianti.
E’ ancora Edvard Grieg di “Solveig’s Song” ad incontrare le dita sapienti dell’axeman tedesco, in una composizione equilibrata, quasi delicata con il suo flavour pop-rock di classe. “Western Sky” è un mutevole componimento del nostro Wolf Hoffmann, per nulla fuori luogo nella raffinata ambientazione del full lenght: il chitarrista voltola tra sapori classici e delicati e coinvolgenti accelerazioni dove troneggia la sua proverbiale quanto melodica aggressività, senza scadere mai in un calo di tono. Il gran finale è affidato a “Pomp and Circumstance”, famosa e trionfalistica composizione di Edward Elgar, perfetta per chiudere questo piccolo grandioso gioiello di perizia tecnica ed emotiva del nostro Wolf Hoffmann.
Come vi avevo anticipato, questo album è complesso, raffinato,evocativo, ricco di sfumature e di molteplici suggestioni, aperto a diverse audience, ma traboccante di cuore, di feeling, di un gusto esecutivo raro e sorretto da una sapienza di prim’ordine. Una splendida luminosa conferma di ciò che ho affermato nella prima frase di questa recensione.
Marco “Divino Marchese” Priulla.
Musicisti:
Wolf Hoffmann – Guitars
Al Kooper – Keyboards
Michael Cartellone – Drums
Peter Baltes – Bass
Tracklist:
1. Prelude
2. In the Hall of the Mountain King
3. Habanera
4. Arabian Dance
5. Moldau
6. Bolero
7. Blues for Elise
8. Aragonaise
9. Solveig’s Song
10. Western Sky
11. Pomp and Circumstance