Recensione: Colossal

Di Daniele D'Adamo - 31 Agosto 2025 - 12:00
Colossal
Band: Baest
Genere: Death 
Anno: 2025
Nazione:
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74

Immersi in una pletora di singoli, spuntano le propaggini di quattro full-lenght in carriera, da parte dei Baest, fra i quali quello nuovo è “Colossal“.

Beast che praticano sì il death metal, e su questo non c’è dubbio, ma in un modo tutto loro. Un modo tale da rendere la loro proposta piuttosto originale e forse anche di più, nell’ambito del metal estremo. A patto di considerare i due brani “Colossus” e “Imp of the Perverse“, registrati molto tempo fa, come retaggio di un passato che non c’è più.

Il combo danese, infatti, con l’ultimogenito ha operato un cambio di stile tranciante, passando da un death metal ortodosso, centrato sugli stilemi classici del genere, per optare per una forma musicale davvero interessante. L’approccio death non è cambiato, questo occorre metterlo subito in chiaro, tuttavia sono praticamente scomparsi gli stilemi suddetti, rimpiazzati da una base che coniuga heavy metal e hard rock.

Un’operazione coraggiosa, bisogna sottolinearlo, poiché mette a rischio la fedeltà della frangia più reazionaria dei fan, che però ha il pregio di convergere in uno stile davvero personale, che non si trova con facilità, nell’ambito del metal estremo. Anzi. È chiaro che una buona dose di potenza, aggressività e cattiveria sono sempre retaggio del gruppo, che non si fa certo pregare nel metterle a giorno per non dimenticare, comunque, i concetti musicali natii.

In primis, c’è l’ugola di Simon Olsen, autore di un growling imbastardito dalle harsh vocals, che in ogni caso non fa prigionieri, nemmeno quando le linee vocali sono pulite (“King of the Sun (con Jesper Binzer dei D-A-D)“). Il suo tono, sparato a pieni polmoni, è assolutamente stentoreo, da sfracellare la cassa toracica.

Proprio il brano suddetto è un rilevante indizio sulla nuova strada intrapresa dalla formazione di Aarhus. La presenza di Jesper Binzer, difatti, non è un caso ma è lì per ribadire il cambio di marcia. Qualche attimo di furia scardinatrice sopravvive ancora, sottolineato dalle rare accelerazioni del drumming di Sebastian Abildsten, che in “In Loathe and Love” accenna addirittura a una bordata di blast-beats così come nella ridetta “Imp of the Perverse“. Drumming che, come più su accennato, mostra anch’esso, con furia, il passato prossimo della storia dei Nostri.

Da “Misfortunate Son (con gli ORM)” in poi, la musica cambia in maniera definitiva. Proprio questa traccia rappresenta infatti un segmento di heavy metal, potenziato, come ormai si sa, dal fragore – totalmente controllato – del death. Tant’è che è abbastanza percepibile, addirittura, un’assonanza con “Soldier Boy” dei Fates Warning (da “Night on Bröcken”, targato 1984). Nonostante ciò, è necessario, a scanso di equivoci, rimarcare che a ogni modo il sound è rimandabile alle poderose evoluzioni del metallo oltranzista. Come mostra “Mouth of the River“, in cui il growling di Olsen diventa addirittura malvagio.

Sound che dipinge un’idea senz’altro rimandabile solo e soltanto al quintetto del Nord Europa, tenuto conto di tutto quanto già detto ma anche della strumentale “Light the Beacons“, ove l’hard rock fornisce le coordinate di base per gli assoli della chitarra solista. Qui, rispetto al resto, discutere di death metal appare del tutto fuori luogo. È come, insomma, se gli AC/DC, giusto per esemplificare al massimo, da un giorno all’altro si mettessero a suonare proprio death metal (sic!). Quest’ipotesi potrebbe indurre a pensare che la medesima sia un’assurdità ma è sufficiente ascoltare l’incipit dell’opener-track “Stormbringer” per rendersi conto della validità della questione.

Malgrado sia evidente l’impegno e la passione profusa da Olsen e compagni, e sia altrettanto rimarcabile l’aver saputo creare uno stile realmente unico al Mondo, appare al contrario un po’ debole il songwriting quanto si tratta di parlare di singole canzoni. Fra esse manca quel qualcosa in più sì da renderle eccezionali, benché siano scoppiettanti e piacevoli da inserire nei timpani. Probabilmente questo difetto è dovuto al fatto che “Colossal” sia il primo passo dei Baest verso nuove mete inesplorate, con tutti i rischi che esse comportano.

In ogni caso, concludendo, non si può che consigliare caldamente di segnarsi questi due nomi: Baest e “Colossal“. Per una visione diversa dai soliti cliché che infestano il death metal.

Daniele “dani66” D’Adamo

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