Recensione: Cultusaurus Erectus

Di Giulio Caputi - 13 Aprile 2004 - 0:00
Cultusaurus Erectus
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Anno: 1980
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85

In seguito allo scarso successo di vendite ottenuto con “Mirrors”, i Blue Oyster Cult si affidarono per la produzione del nuovo album all’esperto Martin Birch (già produttore dei Black Sabbath). Questo connubio si consolidò con il successivo incredibile tour organizzato proprio con i Black Sabbath, denominato appunto “Black and Blue” (non so cosa avrei pagato per esserci stato anche io!!). In effetti “Cultusaurus erectus” presenta un sound “quadrato ed incisivo” che portò erroneamente i BOC ad essere definiti come una heavy metal band, etichetta che li segnerà per il resto della loro carriera (nel 1981 verrano inclusi anche nella colonna sonora del bellissimo e celeberrimo “Heavy Metal” cartone animato che è poi diventato un mito).
Premetto subito una cosa, “Cultusaurus erectus” è tutto meno che heavy metal!!, è un album in pieno stile BOC e cioè per nulla inquadrabile, originalissimo e pieno di spunti veramente geniali. Addirittura in alcuni pezzi risiede una maniacale ricerca del particolare, che ad un primo ascolto può causare una scarsa digeribilità per chi non è abituato alle sonorità dei New Yorkesi e questo è forse il motivo per cui nel successivo peraltro ottimo “Fire of unknown origin” verranno inclusi dei pezzi molto più orecchiabili. La canzone d’apertura dell’album è un classico del BOC’s sound style, “Black blade” infatti è affascinante, piena di sorprese, che mette in luce la straordinaria tecnica del gruppo e che nella parte finale presenta delle atmosfere surreali dominate dalla voce robotica di Eric Bloom. “Monster” è dotata di un riff massiccio intervallato da stacchi jazz pazzoidi e da un break centrale che sembra preso dai primissimi lavori dei King crimson, un vero e proprio minestrone sapientemente miscelato a dovere.
La terza traccia “Divine wind” è un blues caratterizzato dalla minacciosa e cattivissima voce di Bloom, un pezzo ansiogeno che suscita paure ed il “bisogno” di guardarsi le spalle, ma “deadline” ci riporta verso sonorità più aperte anche se il giro di basso è letteralmente ipnotico, davvero eccezionale, ed è proprio il basso a caratterizzare questa canzone, una delle mie preferite in assoluto dei BOC, perfetta poi la voce di Roeser si inserisce a meraviglia nel contesto della musica. Un altro pezzo degno di manicomio è “The marshall plane” da cui fu tratto anche un video (ormai introvabile), ricco di spunti interessanti e di un ottimo lavoro di batteria, la particolarità sta alla metà del pezzo nella ripresa breve di “smoke on the water”, questo per ribadire le origini hard rock del gruppo. “Hungry boys” si commenta da sola: traccia veloce, accompagnata da una voce demenziale e da un giro di chitarra che fa a gara con la voce stessa per stabilire chi è più schizzato, immagino che i BOC si siano divertiti tantissimo in sede di scrittura perché anche i “Drum effects” non sono da meno, come si fa a stabilire il valore di una canzone del genere?… praticamente impossibile. “Fallen angel” la trovo invece un po’ fiacca, in cui la voce del batterista “Bouchard” (bravissimo a suonare, ma a cantare lasciamo perdere…) contribuisce a rendere il pezzo veramente inutile.
Nell’ultimo live/DVD del 2003, proposto dalla band (A long day’s night) ho notato con piacere la presenza di “Lips in the hill” presa appunto da “Cultusaurus erectus”, infatti la canzone merita interesse, perché è un hard rock potente e veloce, oltre che assolutamente originale, questo per sottolineare oltremodo l’importanza di questo disco. Chiude il platter forse (almeno per me) il pezzo più bello di CE e cioè “The unknown tongue” caratterizzato da ottime melodie e da un solo di piano magistralmente suonato da Allen Lanier, come al solito la voce di Bloom conferisce alla song quel particolare senso di esoterico e di misterioso tipico dei BOC.
Per concludere posso aggiungere che “Cultusaurus erectus” è l’ennesimo fondamentale tassello di una discografia eccezionale come quella dei Blue Oyster Cult che specialmente in questo lavoro dimostrano di avere una grande confidenza con l’originalità. Non esiste infatti una canzone minimamente simile all’altra, chi si accosta ad un lavoro di questo tipo deve aspettarsi di tutto, ma se i BOC non fossero così, forse non avrebbero raggiunto quella fama di band assolutamente unica che li ha caratterizzati da sempre.

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