Recensione: Damon’s Rage

Di Fabio Vellata - 16 Aprile 2020 - 17:23
Damon’s Rage
Band: Jesse Damon
Etichetta: AOR Heaven
Genere: AOR 
Anno: 2020
Nazione:
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60

Non è decisamente un artista di primo pelo Jesse Damon, talentuoso chitarrista e cantante che deve la gran parte della propria fortuna in ambiti musicali al buon successo ottenuto con i Silent Rage, band sponsorizzata dal potentissimo Gene Simmons che per un paio di anni a cavallo dei gloriosi eighties ha recitato un ruolo di primo piano all’interno della scena hard rock losangelina.

Memorie di un’epoca abbondantemente passata, considerando che, dopo il primo scioglimento, i Silent Rage hanno poi realizzato agli albori del nuovo millennio una coppia di LP fallimentari e del tutto trascurabili, tanto da indurre il buon Damon (al secolo Timmy James Reilly) ad intraprendere una prolifica carriera solista dai risultati talora di discreto livello.
A far corso dal 2003, il musicista americano ha, infatti, pubblicato prodotti discografici con una certa costanza, concentrandosi senza distrazioni su quella formula di rock melodico vicino all’AOR che ne ha da sempre fondato in modo inconfondibile la carriera.

Ormai rientrato nei confortevoli ambiti dell’underground o, per meglio dire, circoscritti ai soli appassionati, Damon raggiunge con “Damon’s Rage” il rispettabilissimo traguardo del sesto album solista, facendo al contempo ritorno sotto l’ala protettrice della sempre amabile e garantita AOR Heaven, label di sicuro affidamento per gli appassionati di settore.
La novità più interessante tale da indurre a considerare un ascolto approfondito della nuova fatica dell’artista californiano è senza dubbio la rinnovata collaborazione con Paul Sabu, “antico” pigmalione che già aveva benedetto e certificato con la sua presenza gli esordi dei Silent Rage.
Una presenza che, quanto meno in sede di songwriting, non tarda a farsi sentire, regalando al disco due brani (“Love Gone Wild” e “Wildest Dreams”) che si riveleranno poi tra i migliori del lotto. Purtroppo molto discutibile invece, l’apporto in sede di produzione e di resa dei suoni. Detto senza mezzi termini, un autentico disastro: fangosi, privi di profondità, sterili ed asettici. Una vera zavorra che incide in modo spesso determinante sul buon esito dell’intero album.
Francamente, abbiamo ascoltato demo di band alle prime armi prodotti molto meglio.

Una vera, autentica, disdetta proprio perché il disco, pur non brillando per particolare originalità (sarebbe stato inutile cercarla in un contesto simile, del resto), avrebbe pure qualcosa d’interessante da offrire, complici alcune melodie – frutto d’esperienza e ottimo mestiere – dal sapore comunque accattivante.
Suoni purtroppo sgraziati penalizzano canzoni dalle armonie piacevoli ed avvolgenti come “Shadows of Love”, “Love is the Answer” e “Lonely Tonight”, tracce che avrebbero potuto esprimere un ottimo potenziale radiofonico se “vestite” e riscaldate da un adeguato impianto di arrangiamenti ed effetti.
Identico pensiero per la frizzante opener “Play to Win“, la già citata “Love Gone Wild” e “Tell me Lili“, episodi che urlano vendetta per la già più volte descritta scarsità di resa sonora.
Altrove poi, laddove il songwriting non è particolarmente brillante ed un po’ di eccessiva monotonia si intrufola tra le note, gli esiti diventano letteralmente da dimenticare e spingono quasi in modo autonomo il tasto di avanzamento veloce.
Esempi? La title track, “Electric Magic” e “Here Comes Trouble” possono essere più che sufficienti.

Altalenante nella sostanza, a tratti poco incisivo e soprattutto prodotto in modo dozzinale e grossolano, il nuovo capitolo discografico del buon Jesse Damon non passerà di certo alla storia come un’opera tra le meglio riuscite in ambiti AOR dell’ultimo periodo.
Qualche buona idea ed alcune discrete canzoni, annegate in un mare di mediocrità complessiva.
Peccato…

 

 

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